Per la prima volta, gli scienziati sono riusciti a studiare quanto bene gli innesti ossei sintetici resistano alle sollecitazioni che ricevono durante la vita quotidiana dei pazienti a cui sono stati impiantati, e quanto rapidamente aiutino la ricrescita e la riparazione delle ossa.
Il team in questione, che ha esaminato con dettaglio microscopico ciò che avviene tra l’innesto e l’osso, è stato coordinato da Gianluca Tozzi, uno dei tanti “cervelli” fuggiti all’estero, che dopo essersi laureato all’Università di Bologna è ora direttore dello Zeiss Global Centre dell’Università di Portsmouth (Regno Unito). Il ricercatore spera che il risultato possa aiutare a trovare delle modalità per migliorare la capacità del corpo di far ricrescere le proprie ossa e mettere in grado i chirurghi ortopedici di prevedere il successo di un innesto sintetico.
«Ogni tre secondi – ha spiegato Tozzi a ScienceDaily – una persona incorre in una frattura a causa della fragilità ossea. Oltre a rompersi facilmente, le ossa fragili sono anche più difficili da riparare, specialmente quando l’area del difetto è estesa. È vitale capire cosa succede in quell’interfaccia in cui l’osso incontra l’innesto, perché in questo modo potremo ingegnerizzare meglio i sofisticati materiali utilizzati. Le ossa sono tessuti biologici molto complessi e un sostituto osseo sintetico deve avere requisiti specifici per consentire l’afflusso di sangue e incoraggiare la nuova crescita ossea».
Gli innesti sintetici di nuova generazione hanno il potenziale di essere riassorbiti dal corpo nel corso del tempo, consentendo una rigenerazione ossea graduale nel sito dove c’è il difetto, ma i biomateriali che si degradano troppo rapidamente non danno abbastanza tempo al nuovo osso di crescere e quelli che si degradano troppo lentamente possono causare instabilità meccanica al sito dell’impianto.
Il team è riuscito nell’impresa grazie a un dispositivo, presente nello Zeiss Global Centre, che effettua una particolare tomografia a raggi X (synchrotron X-ray computed tomography – SR-XCT): «in questo modo – ha dichiarato Tozzi – possiamo prevedere l’esito clinico dei biomateriali in un corpo vivente, migliorando significativamente le nostre conoscenze».
Peña Fernández M, Dall’Ara E et al. Full-Field Strain Analysis of Bone–Biomaterial Systems Produced by the Implantation of Osteoregenerative Biomaterials in an Ovine Model. ACS Biomaterials Science & Engineering 2019 5 (5), 2543-2554.
Nuotare nell’oceano altera il microbioma cutaneo e può aumentare la probabilità di infezione, secondo una ricerca presentata ad ASM Microbe 2019, l’incontro annuale della American Society for Microbiology.
«I nostri dati – ha affermato Marisa Chattman Nielsen, studentessa di dottorato presso l’Università della California, Irvine, e autrice principale dello studio – dimostrano per la prima volta che l’esposizione all’acqua oceanica può alterare la diversità e la composizione del microbioma della pelle umana. Abbiamo osservato che, mentre si nuota, i batteri normalmente residenti vengono lavati via mentre i batteri oceanici si depositano sulla pelle».
I ricercatori hanno rilevato i batteri oceanici su tutti i partecipanti allo studio immediatamente dopo la nuotata e l’asciugamento del corpo all’aria, ma anche dopo sei ore e persino dopo un giorno; ci sono state comunque differenze e alcuni hanno acquisito più batteri oceanici di altri o li hanno mantenuti più a lungo.
Non si tratta solo di una notizia curiosa, perché già studi precedenti avevano mostrato associazioni tra nuoto oceanico e infezioni e molte spiagge statunitensi che si affacciano sull’Oceano Pacifico sono bagnate da acque di cattiva qualità, a causa del deflusso delle acque reflue e dell’acqua piovana. Ricerche recenti hanno dimostrato che i cambiamenti nel microbioma possono aumentare la suscettibilità alle infezioni e influenzare gli stati patologici. L’esposizione a queste acque può causare malattie gastrointestinali e respiratorie, infezioni dell’orecchio e della pelle.
La ricerca è stata condotta su nove volontari senza protezione solare, che in precedenza si erano esposti solo sporadicamente alle acque dell’oceano, che non avevano fatto il bagno nelle ultime dodici ore e che non avevano assunto antibiotici nei sei mesi precedenti.
Tra i batteri oceanici rilevati con maggiore frequenza figurano quelli del genere Vibrio; i ricercatori non hanno specificato le specie rinvenute, ma Nielsen ha dichiarato: «molti Vibrio non sono patogeni, ma la nostra ricerca dimostra che le specie patogene potrebbero potenzialmente persistere sulla pelle dopo il nuoto».
La frazione di Vibrio rilevata sulla pelle umana è stata infatti oltre dieci volte superiore rispetto a quella presente nei campioni di acqua oceanica, il che suggerisce una specifica affinità che ne determina l’attaccamento alla pelle umana.
ASM Microbe è il meeting annuale della American Society for Microbiology, che quest’anno si è tenuto dal 20 al 24 giugno a San Francisco, California.
In futuro, i dottori potrebbero essere in grado di individuare e uccidere le cellule tumorali con un laser non invasivo. Lo promette un articolo pubblicato su Science Transitional Medicine, in cui i ricercatori della University of Arkansas Medical Sciences hanno esposto le prestazioni di un loro innovativo dispositivo laser, che vanta un tasso di successo del 96% e una sensibilità 1000 volte superiore alla tecnologia attuale.
Come evidenziano gli autori, uno degli aspetti più spaventosi del melanoma è la sua capacità di metastatizzare all’inizio della progressione della malattia e, una volta che le metastasi hanno coinvolto organi distanti, il tasso medio di sopravvivenza a cinque anni crolla, da percentuali vicine al 100% nei casi di tumore non metastatico e rescisso precocemente, ad appena il 10-15%.
È dunque essenziale eliminare il tumore prima che abbia la possibilità di diffondersi e per fare questo i ricercatori si pongono l’obiettivo di individuare le cellule tumorali liberate dal tumore primario e circolanti nel sangue. È proprio qui che entra in gioco il nuovo dispositivo, un laser a impulsi brevi che riconosce le cellule del melanoma nei vasi sanguigni vicini alla superficie del corpo, che si riscaldano leggermente a causa della loro colorazione più scura. Il riscaldamento attiva una piccola onda acustica che viene poi intercettata dal rilevatore di ultrasuoni del laser, tanto efficace da individuare una singola cellula presente in un litro di sangue.
Testato su 28 pazienti con melanoma e 19 soggetti sani utilizzati come controllo, il laser ha rilevato le cellule tumorali circolanti in 27 dei pazienti con melanoma e in nessuna delle persone sane.
Il dispositivo non si limita a rilevare le cellule del tumore ma sembra anche in grado di distruggerle, in un trattamento che dura meno di un’ora, i cui livelli di sicurezza restano tuttavia da mettere a punto. Secondo gli autori, il trattamento probabilmente non basterà per eliminare del tutto il tumore, ma potrebbe essere usato insieme ad altri trattamenti per migliorarne le prestazioni. Questo laser potrebbe essere utilizzato anche per monitorare l’efficacia dei farmaci anti-cancro, controllare i segni di melanoma post-trattamento o assumere un ruolo preventivo simile a mammografia.
Galanzha EI, Menyaev YA et al. In vivo liquid biopsy using Cytophone platform for photoacoustic detection of circulating tumor cells in patients with melanoma. Sci Transl Med. 2019 Jun 12;11(496).
Un’elevata assunzione di glutine nelle prime fasi di vita si è associato a un aumentato rischio di celiachia in un nuovo studio condotto da un team di ricercatori del Nord Europa.
«Abbiamo scoperto che un bambino di un anno nella fascia più alta di assunzione di glutine ha un rischio doppio di sviluppare autoimmunità della malattia celiaca, una fase che spesso prelude alla celiachia vera e propria; – ha dichiarato all’agenzia Reuters il coordinatore della ricerca Karl Marild dell’Istituto norvegese di salute pubblica norvegese e del Queen Silvia Children’s Hospital di Göteborg, in Svezia – per me è stato sorprendente trovare un’associazione così forte, data la natura onnipresente del glutine nella nostra dieta».
Marild e colleghi hanno utilizzato i dati relativi a 1.875 bambini forniti da un altro studio (Daisy – Diabetes AutoImmunity Study in the Young) che aveva invece l’obiettivo di indagare la predisposizione al diabete mellito di tipo 1. Tra i punti a favore, il lunghissimo follow-up: i partecipanti sono stati seguiti dal 1993 fino al gennaio 2017. I bambini sono stati suddivisi in tre gruppi a seconda della quantità di glutine assunta con l’alimentazione nel periodo in cui avevano da un anno a due anni di età. I ricercatori hanno poi confrontato i dati dei partecipanti, ormai adulti, appartenenti alla fascia di assunzione maggiore di glutine con quelli della fascia inferiore, mostrando per i primi un maggior rischio del 96% di celiachia e del 117% di autoimmunità della malattia celiaca: in altri termini, un raddoppio del rischio.
«Se i nostri risultati saranno confermati – ha detto Marild – potranno fornire una comprensione un po’ migliore su un aspetto significativo della probabile eziologia multifattoriale di questa malattia. È importante sottolineare che non raccomandiamo un cambiamento nelle pratiche di alimentazione pediatrica, perché il nostro è stato uno studio osservazionale e non in grado di mostrare un rapporto di causa effetto».
È altresì necessario specificare che il consumo di alimenti ricchi di glutine nelle persone adulte non celiache non è mai stato associato ad alcun effetto negativo. Le diete senza glutine, molto di moda negli Stati Uniti, impegnative, inutili e costose, possono comportare dei rischi e il loro effetto salutare rientra tra le numerose “bufale” mai dimostrate, ma molto diffuse in ambito nutrizionale.
Mårild K, Dong F et al. Gluten Intake and Risk of Celiac Disease: Long-Term Follow-up of an At-Risk Birth Cohort. Am J Gastroenterol. 2019 May 9.
L’intestino umano ospita miliardi di batteri che nel loro complesso formano il microbiota intestinale, il cui ruolo cruciale nella digestione è noto da tempo. Ma un numero crescente di evidenze scientifiche sta evidenziando che questi microrganismi influenzano anche il nostro comportamento e persino il nostro cervello. Ora, gli autori di una nuova revisione sistematica mostrano che determinare un cambiamento nella nostra flora intestinale può costituire un metodo efficace per alleviare i sintomi degli stati ansiosi.
I ricercatori della Scuola di Medicina dell’Università Jiao Tong di Shanghai hanno analizzato 21 studi incentrati su interventi per trattare l’ansia attraverso la modulazione dei batteri intestinali. La revisione, che ha coinvolto 1.503 soggetti ed è stata pubblicata sulla rivista General Psychiatry, ha confermato che alcuni approcci sono davvero efficaci.
Per manipolare i batteri intestinali nei partecipanti, sono stati usati due approcci principali: in sette degli studi inclusi nell’analisi è stato modificato il regime alimentare dei pazienti, mentre negli altri 14 sono stati somministrati supplementi probiotici. I probiotici, a cui spesso ci si riferisce come “batteri buoni”, si trovano in determinati alimenti e possono aiutare a riequilibrare una flora intestinale impoverita. Degli studi sui probiotici, sette hanno usato un solo tipo di batteri, due ne hanno impiegati due tipi, mentre i rimanenti cinque hanno fatto ricorso a tre o più ceppi batterici.
In tutti gli studi esaminati, i ricercatori cinesi hanno rilevato un effetto positivo; in alcuni casi è stato di entità modesta, ma in undici di loro si è avuto un marcato miglioramento dei sintomi di ansia: cinque attraverso l’approccio probiotico e sei con quello dietetico. La revisione ha anche permesso di migliorare la nostra conoscenza riguardo alla combinazione dei tradizionali farmaci per l’ansia con l’intervento sui batteri intestinali: a questo propósito, gli autori hanno scoperto che i miglioramenti si sono avuti solo affiancando ai farmaci gli interventi dietetici e non con l’assunzione di probiotici.
Presi da soli, gli interventi sulla dieta hanno avuto un tasso di efficacia dell’86%, che potrebbe essere correlata alla crescita più efficace di diversi tipi di batteri in seguito al cambiamento del regime alimentare. Riguardo invece all’integrazione con probiotici, gli esperti ipotizzano che i batteri presenti negli integratori potrebbero entrare in competizione gli uni contro gli altri e non produrre di conseguenza le modifiche desiderate al microbioma intestinale. È anche possibile che solo alcuni tipi di batteri facciano la differenza e individuarli sarà compito delle prossime ricerche.
Yang B, Wei J, Ju P et al. Effects of regulating intestinal microbiota on anxiety symptoms: A systematic review
General Psychiatry 2019;32:e100056.
Siccome i casi di melanoma sono in continuo aumento, ormai da qualche anno ai cittadini statunitensi viene chiesto di sottoporsi a screening precoce per questo tumore della pelle così pericoloso. Ma alcuni dermatologi si chiedono se lo screening generalizzato di persone senza sintomi abbia comportato una sovradiagnosi, con carichi d’ansia e trattamenti inutili. Un resoconto del dibattito in corso è stato riportato su Medscape, il portale dedicato alla divulgazione medico-scientifica.
Mentre il numero di casi di melanoma diagnosticati negli Stati Uniti è raddoppiato dal 1982 al 2011 e continua a crescere, i tassi di mortalità sono diminuiti solo leggermente. Dal 2007 al 2016, i decessi per melanoma sono scesi del 4% negli adulti fino a 50 anni e del 2% nelle persone di età superiore.
«Il grande aumento dei melanomi diagnosticati dovrebbe essere associato a un forte calo della mortalità – sostiene Ade Adamson, dermatologo e professore presso la University of Texas – ma si tratta di una discussione molto delicata perché siamo portati a credere che lo screening di persone sane e la diagnosi precoce salverà delle vite, indipendentemente dal tipo di cancro».
Secondo Adamson, i progressi tecnologici contribuiscono alle diagnosi eccessive, e porta l’esempio degli strumenti di scansione della pelle che rilevano piccoli cambiamenti che l’occhio non può vedere: ma anche per un esperto è difficile, a volte impossibile, distinguere la lesione maligna di un melanoma da una benigna nelle sue prime fasi. Ne possono derivare danni come diagnosi errate, sovradiagnosi, effetti estetici dovuti alle biopsie ed effetti collaterali associati ai farmaci, oltre all’inevitabile disagio psicologico per i pazienti.
C’è però chi la pensa diversamente. Joel Cohen, portavoce della American Academy of Dermatology, ritiene che la diagnosi precoce sia assolutamente essenziale: «intercettare un melanoma molto piccolo è qualcosa da festeggiare». Del resto, secondo i dati forniti dalla American Society of Clinical Oncology, i tassi di sopravvivenza a cinque anni per le persone il cui melanoma viene rilevato precocemente sono del 92%; invece, se il tumore si è diffuso ad altre parti del corpo, la percentuale scende al 23%.
Tuttavia, gli esperti sono tutti d’accordo su un fatto: la prevenzione è il primo importante passo per evitare il cancro della pelle. L’American Academy of Dermatology esorta tutti a seguire alcuni comportamenti: limitare l’esposizione al sole, specie nelle ore centrali della giornata; indossare indumenti protettivi come cappelli a tesa larga, occhiali da sole, pantaloni lunghi e camicie a maniche lunghe; applicare generosamente una crema solare resistente all’acqua, ad ampio spettro e con fattore di protezione 30 o superiore, anche nei giorni nuvolosi; riapplicare la protezione solare ogni due ore; evitare lettini abbronzanti e far controllare la pelle per individuare macchie nuove o sospette.
I ricercatori della University of British Columbia di Vancouver, in Canada, hanno sviluppato un microscopio molto speciale, che ha la capacità potenziale di diagnosticare malattie come il cancro della pelle ed eseguire interventi chirurgici estremamente precisi, il tutto senza incidere l’epidermide.
«La nostra tecnologia – ha spiegato Yimei Huang, uno degli autori dello studio, pubblicato su Science Advances – ci permette di scansionare rapidamente i tessuti e, quando vediamo una struttura cellulare sospetta o anomala, possiamo eseguire un intervento chirurgico ultra-preciso e trattare selettivamente la struttura indesiderata o malata all’interno del tessuto, senza tagliare la pelle».
Il dispositivo è un tipo di microscopio a eccitazione multifotonica che consente l’imaging di tessuti viventi fino a circa un millimetro di profondità utilizzando un raggio laser infrarosso ultraveloce. Ciò che distingue il microscopio dalla tecnologia precedente è che è in grado non solo di digitalizzare il tessuto vivente, ma anche di trattarlo intensificando il calore prodotto dal laser.
I ricercatori hanno voluto rendere la tecnologia del microscopio multifotone più versatile aumentando allo stesso tempo la sua precisione, riuscendo a identificare quello che accade sotto la pelle da diverse angolazioni.
Quando viene applicato al trattamento di malattie della pelle, il microscopio consente ai medici di individuare la posizione esatta dell’anomalia, diagnosticarla e trattarla immediatamente. Potrebbe essere usato per trattare qualsiasi struttura del corpo che viene raggiunta dalla luce e che richiede un trattamento estremamente preciso, inclusi i nervi o i vasi sanguigni nella pelle, negli occhi, nel cervello o in altre strutture vitali.
«Siamo in grado di modificare il percorso dei vasi sanguigni senza colpire nessuno dei vasi o tessuti circostanti – ha detto Harvey Lui, altro autore dello studio e professore presso il dipartimento di Dermatologia e scienze della pelle presso la University of British Columbia – Per diagnosticare e analizzare malattie come il cancro della pelle, questo potrebbe essere rivoluzionario».
Huang Y, Wu Z, Lui H et al. Precise closure of single blood vessels via multiphoton absorption–based photothermolysis. Sci Adv. 2019 May 15;5(5):eaan9388.
Uno sciame di micro-robot, diretto da magneti, è in grado di staccare e rimuovere il biofilm che forma la caratteristica placca che si forma intorno ai denti e che promuove e sostiene le comuni patologie orali, dalla carie alla malattia parodontale.
L’innovazione nasce da una partnership tra dentisti, biologi e ingegneri della University of Pennsylvania ed è stata descritta su Science Robotics. Con due tipi di sistemi robotici, uno progettato per lavorare sulle superfici e l’altro per operare all’interno di spazi ristretti, gli scienziati hanno dimostrato che i robot con attività catalitica hanno la capacità di distruggere il biofilm orale, quell’aggregazione complessa di microrganismi che si deposita sulla sostanza dura dentale, sui restauri e sulle ricostruzioni protesiche, sulla gengiva, sulle mucose, sulla lingua e nelle tasche paradontali. Questi sistemi robotici di rimozione del biofilm promettono di essere utili in un’ampia gamma di potenziali applicazioni: se da un lato potranno mantenere puliti tubi dell’acqua e cateteri, dall’altro andranno a ridurre il rischio di carie, infezioni endodontiche e contaminazione degli impianti.
A coordinare lo studio sono stati Hyun Koo della School of Dental Medicine e Edward Steager della the School of Engineering and Applied Science. «Alla base del nostro risultato – ha affermato Koo – c’è stata un’interazione davvero sinergica e multidisciplinare. Stiamo sfruttando l’esperienza di microbiologi, scienziati clinici e ingegneri per progettare il miglior sistema di eradicazione microbica possibile, aspetto importante anche per altri settori biomedici che affrontano biofilm resistenti ai farmaci, proprio mentre il mondo si sta avvicinando a un’era post-antibiotica».
E Steager ha aggiunto: «il trattamento dei biofilm che si formano sui denti richiede una grande quantità di lavoro manuale, con la nostra innovazione speriamo di migliorare le opzioni di trattamento e ridurre la difficoltà di assistenza».
Secondo i ricercatori americani, i trattamenti attualmente esistenti per i biofilm sono inefficaci perché sono incapaci di degradare simultaneamente la matrice protettiva, uccidere i batteri incorporati e rimuovere fisicamente i prodotti biodegradati. Invece, secondo Koo, «questi robot possono fare le tre cose contemporaneamente e in modo molto efficace, senza lasciare tracce di biofilm».
Hwang G, Paula JA, Hunter EE et al. Catalytic antimicrobial robots for biofilm eradication. Science Robotics 24 Apr 2019: Vol. 4, Issue 29, eaaw2388.
I ricercatori del Monell Center di Philadelphia hanno scoperto che i recettori olfattivi funzionali, i sensori che nel naso servono per avvertire gli odori, sono presenti anche nelle cellule del gusto che si trovano sulla lingua. I risultati, pubblicati su Chemical Senses, suggeriscono che le interazioni tra i sensi dell’olfatto e del gusto, i componenti primari del sapore del cibo, possono iniziare sulla lingua e non nel cervello, come si pensava in precedenza.
«La nostra ricerca – ha dichiarato Mehmet Hakan Ozdener, il biologo cellulare e autore senior dello studio – può aiutare a spiegare come le molecole degli odori modulano anche la percezione del gusto. Questo potrà portare allo sviluppo di modificatori del gusto basati sugli odori che possono aiutare a combattere l’eccesso di sale, zucchero e assunzione di grassi associati a malattie legate all’alimentazione come l’obesità e il diabete». L’ipotesi futuristica di Ozdener è supportata dal fatto che il gusto si è evoluto nel tempo per metterci in grado di valutare il valore nutritivo e la potenziale tossicità di ciò che mettiamo in bocca.
Attraverso le papille gustative siamo in grado di rilevare i gusti fondamentali del dolce, del salato, dell’acido, dell’amaro e dell’umami e le loro innumerevoli variazioni; il cervello combina i segnali forniti dai recettori del gusto, dell’olfatto e di altri sensi per creare la sensazione complessiva del sapore.
Finora il gusto e l’olfatto erano considerati come sistemi sensoriali indipendenti, che non interagivano finché le loro rispettive informazioni non raggiungevano il cervello. Ozdener è stato spinto a sfidare questa convinzione dopo che suo figlio, dodicenne, gli aveva chiesto se i serpenti estendono la loro lingua per poter annusare.
Lo studio che ne è derivato suggerisce che i recettori olfattivi possono giocare un ruolo nel sistema che porta alla percezione dei sapori interagendo con i recettori del gusto direttamente sulla lingua. A supporto di questa possibilità, altri esperimenti condotti dagli scienziati Monell hanno dimostrato che una singola cellula della lingua può contenere sia i recettori del gusto che quelli olfattivi.
Lo studio apre ai ricercatori l’opportunità di condurre numerosi altri approfondimenti: sussistono molti dubbi riguardo ai meccanismi di funzionamento dei 400 diversi tipi di recettori olfattivi umani; siccome le cellule del gusto coltivate in laboratorio rispondono agli odori, potrebbero essere utilizzate per identificare quali molecole si legano a specifici recettori olfattivi. Ulteriori ricerche potranno esplorare le modalità con cui le molecole che producono i diversi odori modificano le risposte delle papille gustative e, in ultima analisi, la percezione umana dei sapori.
Malik B, Elkaddi N, Turkistani J, Spielman AI, Ozdener MH. Mammalian Taste Cells Express Functional Olfactory Receptors. Chemical Senses, 24 April 2019.
Un nuovo studio, recentemente pubblicato su JAMA Neurology, indica che un semplice esame del sangue può rivelare se le cellule nervose nel cervello si stanno deteriorando a un ritmo anomalo. I ricercatori hanno analizzato la presenza nel sangue di una proteina, il cosiddetto neurofilamento leggero (NfL, Neurofilament light Chain) in pazienti affetti malattia di Alzheimer, rilevandone una concentrazione particolarmente elevata.
I campioni di sangue sono stati raccolti per diversi anni, e in più occasioni, da 1.182 pazienti con diversi gradi di compromissione cognitiva e 401 soggetti sani che hanno costituito il gruppo di controllo.
Quando le cellule nervose del cervello sono danneggiate o muoiono, la proteina NfL entra nel liquido cerebrospinale e poi nel sangue: esistevano già sospetti in merito, ma mancavano studi a lungo termine.
«Abbiamo scoperto che, nei pazienti che sviluppano il morbo di Alzheimer, la concentrazione di NfL aumenta nel tempo e che i livelli elevati sono correlati con l’entità del danno cerebrale accumulato», ha afferma il coordinatore dello studio Niklas Mattsson.
Com’è noto, l’Alzheimer è una malattia complessa, che si sviluppa gradualmente ed è difficile da analizzare nelle sue prime fasi, asintomatiche; la malattia comporta il deterioramento delle funzioni cognitive e fisiche insieme all’atrofia e alla morte delle cellule cerebrali. Allo stato attuale, non esiste un trattamento che possa ridurre la perdita di cellule nervose nel cervello e i farmaci disponibili sono in grado di mitigare i disturbi cognitivi, ma non di rallentare il decorso della malattia. Le misurazioni della concentrazione NfL nel sangue potrebbero servire per valutare l’efficacia di un farmaco nell’influenzare la perdita delle cellule nervose e determinarne il dosaggio ottimale.
Mattsson ritiene che il metodo possatrà presto tradursi in una procedura clinica standard: «presso l’ospedale universitario di Sahlgrenska a Göteborg, stiamo svolgendo il lavoro preparatorio per rendere questo metodo disponibile come procedura clinica nel prossimo futuro. Attraverso un semplice esame del sangue, i medici potranno misurare il danno alle cellule nervose, prodotto dalla malattia di Alzheimer o da altri disturbi cerebrali».
Mattsson N, Cullen NC, Andreasson U, Zetterberg H, Blennow K. Association Between Longitudinal Plasma Neurofilament Light and Neurodegeneration in Patients With Alzheimer Disease. JAMA Neurol. 2019 Apr 22.
Un nuovo studio internazionale, pubblicato su The Lancet ed effettuato su numeri davvero ingenti e significativi, ha valutato l’impatto della dieta sulle malattie – in particolare tumori, malattie cardiovascolari e diabete – e sulla mortalità tra il 1990 e il 2017 e offre un panorama approfondito sui diversi alimenti “a rischio” consumati in 195 Paesi del mondo. «Mentre gli zuccheri e i grassi sono stati al centro dei dibattiti negli ultimi due decenni – ha dichiarato Christopher Murray della University of Washington – la nostra ricerca suggerisce che i principali fattori di rischio alimentari sono l’assunzione elevata di sodio e il basso apporto di alimenti sani, come cereali integrali, frutta, verdura, noci e semi».
In altri termini: ciò che non si mangia è altrettanto importante per la salute globale quanto gli alimenti dannosi che si consumano.
I Paesi con i più elevati tassi di decessi legati all’alimentazione, nell’ordine, risultano l’Uzbekistan (892 morti ogni 100.000 persone) e l’Afghanistan, mentre la mortalità più bassa legata si è registrata in Israele (89 morti ogni 100.000 persone), Francia, Spagna e Giappone.
Lo studio ha rilevato che le diete ad alto contenuto di sale sono tra le principali responsabili di decessi correlati all’alimentazione, seguiti dalla carente assunzione di cereali integrali e dall’insufficiente apporto di frutta e verdura.
In particolare, il basso apporto di cereali integrali è stato valutato come principale fattore di rischio alimentare per morte e malattia in India, Brasile, Pakistan, Nigeria, Russia, Egitto, Germania, Iran e Turchia. Invece, l’assunzione elevata di sodio (oltre tre grammi al giorno) è il principale rischio alimentare per coloro che vivono in Cina, Giappone e Tailandia. È anche degno di nota il fatto che nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti i principali rischi siano dovuti al consumo di carni rosse, carni trasformate (salumi) e bevande zuccherate, quello che, ormai sempre più spesso, viene definito “cibo spazzatura”.
Anche se molti esperti hanno sottolineato l’alta qualità dello studio, altri ne hanno rilevato i limiti: gli autori hanno infatti ignorato molti fattori importanti, come l’assunzione di alcol e l’esercizio fisico.
GBD 2017 Diet Collaborators. Health effects of dietary risks in 195 countries, 1990-2017: a systematic analysis for the Global Burden of Disease Study 2017. Lancet. 2019 Apr 3. pii: S0140-6736(19)30041-8.
La terapia cognitivo comportamentale è l’ultimo trattamento consigliato nella lotta contro la sindrome dell’intestino irritabile: secondo uno studio pubblicato sulla rivista medica Gut, è più efficace nell’alleviare il disagio dei pazienti rispetto all’attuale terapia standard.
La sindrome dell’intestino irritabile interessa circa il 10% della popolazione ed è responsabile di sintomi persistenti come mal di stomaco o crampi, gonfiore addominale, stitichezza o diarrea; altri segni frequenti sono anche la flatulenza, l’affaticamento, la nausea e l’incontinenza. Nella sua forma più grave, la condizione può avere un impatto notevole sulla routine quotidiana e sulla qualità della vita di chi ne soffre, tuttavia si tratta di un cosiddetto “disturbo funzionale”, uno modo per dire che nessuno ne conosce davvero la causa, infatti non si associa a cambiamenti patologici oggi rilevabili con specifici test: la diagnosi avviene sulla base dei sintomi.
Gli attuali approcci terapeutici comprendono farmaci e consigli sullo stile di vita e sull’alimentazione, ma la terapia psicologica potrebbe costituire un metodo alternativo per gestire i sintomi della sindrome dell’intestino irritabile.
Lo studio ha coinvolto 558 pazienti che presentavano sintomi da lungo tempo e che avevano provato altri trattamenti per almeno un anno: mentre alcuni hanno continuato a ricevere i trattamenti tradizionali, ad altri sono state offerte otto sessioni di terapia cognitivo comportamentale specificamente progettate per il trattamento della sindrome dell’intestino irritabile. Dodici mesi dopo, è stato il secondo gruppo a riportare i miglioramenti più significativi nella sintomatologia: sulla base di un sistema di misurazione su una scala da 0 a 500 (Irritable bowel syndrome severity scoring system – IBS-SSS), i loro sintomi sono risultati inferiori di 61 punti. Sorprendentemente, la terapia cognitivo comportamentale si è rivelata efficace anche quando non è stata impartita attraverso colloqui faccia a faccia con il terapeuta: «il fatto che sia le sessioni di terapia effettuate via telefono che quelle basate sul web si siano dimostrate efficaci è una scoperta davvero importante ed entusiasmante, – ha affermato Hazel Everitt, professore associato di medicina generale presso l’Università di Southampton, in Inghilterra, e primo autore dello studio – i pazienti possono seguire questi trattamenti al proprio domicilio, negli orari più comodi».
Everitt HA, Landau S et al. Assessing telephone-delivered cognitive-behavioural therapy (CBT) and web-delivered CBT versus treatment as usual in irritable bowel syndrome (ACTIB): a multicentre randomised trial. Gut. 2019 Apr 10. pii: gutjnl-2018-317805.
Alimenti sani prescritti come se fossero farmaci: un nuovo studio pubblicato in marzo su PLoS Medicine suggerisce di adottare questa strategia negli Stati Uniti per i beneficiari di Medicare e Medicaid – i due principali programmi federali di assicurazione sanitaria – con lo scopo dichiarato di ridurre il rischio di malattie croniche, come quelle cardiovascolari o il diabete, e allo stesso tempo abbassare i costi delle cure.
Facendo uso di modelli computerizzati, i ricercatori della Tufts University di Boston hanno stimato che le prescrizioni di cibi sani potrebbero prevenire milioni di eventi cardiovascolari, come infarti e ictus, e far risparmiare miliardi di dollari in costi sanitari.
Per effettuare le simulazioni, gli autori hanno incluso persone con un’età compresa tra i 35 e gli 80 anni e iscritte a Medicare o Medicaid; come parte della modellizzazione, hanno utilizzato i dati delle tre più recenti indagini sulla salute e sull’alimentazione dei cittadini statunitensi, oltre a quelli prodotti da studi pubblicati in letteratura e meta-analisi che includevano informazioni demografiche, abitudini dietetiche, e costi sanitari.
Nello studio sono state esaminate diverse ipotesi: tra queste una stima dell’impatto che potrebbe avere uno sconto del 30% per l’acquisto di cibi salutari prescritti dal medico.
Già limitando le prescrizioni a frutta e verdura, oggi consumate in quantità insufficiente negli Usa, si è calcolato che gli eventi cardiovascolari evitati potrebbero essere di 1,93 milioni, con un risparmio complessivo di 39,7 miliardi di dollari. Quando hanno eseguito la stima ipotizzando una più ampia prescrizione di alimenti sani, hanno calcolato che sarebbero stati evitati 3,28 milioni di eventi cardiovascolari e 120.000 casi di diabete e sarebbero stati risparmiati 100,2 miliardi di dollari.
«Abbiamo scoperto che una copertura parziale del costo di acquisto di frutta, verdura, cereali integrali, noci, semi e oli vegetali sarebbe altamente conveniente – ha affermato Yujin Lee, prima autrice dello studio – e avrebbe un rapporto costo-efficacia del tutto simile a quello che si ottiene con la prescrizione di farmaci per il colesterolo alto o l’ipertensione».
Lee Y, Mozaffarian D, Sy S, Huang Y, Liu J, Wilde PE, Abrahams-Gessel S, Jardim TSV, Gaziano TA, Micha R. Cost-effectiveness of financial incentives for improving diet and health through Medicare and Medicaid: A microsimulation study. PLoS Med. 2019 Mar 19;16(3):e1002761.
Un nuovo tipo di sensore potrebbe portare alla creazione di un tipo di pelle artificiale in grado di aiutare le vittime di ustioni e proteggere meglio alcune categorie di cittadini particolarmente esposti a causa della loro attività professionale: in fase avanzata di sviluppo, è stato presentato in un articolo comparso su Advanced Materials.
La capacità della pelle di percepire la pressione, le vibrazioni, il caldo e il freddo sono fondamentali a garantire la sicurezza, una funzione che la maggior parte delle persone dà per scontata: coloro che hanno subito ustioni o che, per qualsiasi motivo, hanno perso la sensibilità della pelle, spesso si feriscono involontariamente.
I chimici Islam Mosa e James Rusling dell’Università del Connecticut e l’ingegnere Abdelsalam Ahmed dell’Università di Toronto stanno mettendo a punto un sensore in grado di imitare le proprietà sensoriali della pelle, ma non solo. «Sarebbe molto bello – ha detto Mosa – se la nuova pelle artificiale potesse incorporare anche capacità che la pelle umana naturale non possiede, come quella di rilevare campi magnetici, onde sonore e comportamenti anomali».
Il team ha creato un prototipo di sensore con un tubo di silicone avvolto in un filo di rame e riempito con un fluido speciale fatto di minuscole particelle di ossido di ferro lunghe appena un miliardesimo di metro. Gli urti delle nanoparticelle all’interno del tubo di silicone creano una corrente elettrica e il filo di rame la preleva come segnale. Quando il tubo viene urtato da qualcosa che produce una pressione, le nanoparticelle si muovono e il segnale elettrico cambia. Le onde sonore si trasmettono nel fluido delle nanoparticelle e anche in questo caso il segnale elettrico cambia, ma in modo diverso e riconoscibile.
I ricercatori hanno scoperto che anche i campi magnetici alterano il segnale in un modo distinto dalla pressione o dalle onde sonore. Infine, quando una persona che indossa il sensore si muove, la corrente elettrica cambia e produce segnali differenti a seconda che stia camminando, correndo, saltando o nuotando.
Questa “pelle di metallo” potrebbe apparire come un super-potere analogo a quelli posseduti dagli eroi dei fumetti, ma i ricercatori l’hanno progettata per aiutare le vittime di ustioni a essere di nuovo consapevoli delle sensazioni fornite dalla pelle umana normale e, eventualmente, aiutare chi, per lavoro, potrebbe essere esposto a campi magnetici pericolosi. Il dispositivo è completamente sigillato dalla parte esterna in gomma e potrebbe essere utilizzato anche in acqua.
Il prossimo passo è modificare la forma del sensore affinché assuma una configurazione piatta, più simile alla pelle, e vedere se mantiene le straordinarie proprietà mostrate dal dispositivo di prova.
Ahmed A, Hassan I, Mosa IM, Elsanadidy E, Sharafeldin M, Rusling JF, Ren S. An Ultra-Shapeable, Smart Sensing Platform Based on a Multimodal Ferrofluid-Infused Surface. Adv Mater. 2019 Mar;31(11):e1807201.
La malattia renale cronica è spesso clinicamente silente e i dati clinici convenzionali non consentono, da soli, di differenziare i sottotipi di malattia, ma i risultati di un recente studio supporta l’uso dell’analisi genetica per migliorarne la diagnostica e il trattamento.
Nella pratica clinica, la diagnosi e il monitoraggio della malattia renale cronica sono basati su parametri clinici e solo raramente comportano una biopsia renale. Tuttavia, in molti casi la malattia si manifesta in forma “silenziosa” ed è difficile da discriminare usando solo i dati clinici.
Quindi, in molti individui, la causa precisa del danno progressivo ai reni rimane sconosciuta e la diagnosi è formulata in maniera tardiva, riducendo l’opportunità di un intervento terapeutico precoce; inoltre, pochi degli attuali approcci terapeutici sono personalizzati, ma secondo lo studio pubblicato sul New England Journal of Medicine, i test genetici potrebbero aiutare a superare queste criticità.
Gli autori hanno eseguito il sequenziamento dell’esoma (l’insieme di tutte le porzioni del genoma che “codificano” per proteine) di 3.315 pazienti con malattia renale cronica dovuta a cause diverse e hanno riportato un tasso del 9,3% di varianti diagnostiche genetiche, comprendenti 66 siti monogenici già noti per essere associati a disturbi renali.
«Questo studio – si legge in un editoriale su Nature Reviews Nefrology – evidenzia il potenziale dei test genetici per gli adulti affetti da malattia cronica renale e per la malattia renale allo stadio terminale (Esrd). Scoprire la genetica sottostante alle diverse forme di malattia renale servirà a migliorare l’accuratezza diagnostica e ad elaborare nuovi approcci secondo la “medicina di precisione”. Ottenere una diagnosi genetica per un paziente con malattia renale cronica potrebbe migliorare la gestione clinica, compresa la scelta della terapia, e consentire una sorveglianza mirata della malattia. L’approfondimento delle basi genetiche potrebbe anche rivelare nuovi meccanismi biologici associati alla malattia e portare a definire nuovi bersagli terapeutici di cui potrebbe beneficiare un ampio numero di pazienti».
Groopman, EE et al. Diagnostic utility of exome sequencing for kidney disease. N Engl J Med. 2019 Jan 10;380(2):142-151.
Le persone che consumano molte bevande zuccherate e sport drink ogni giorno potrebbero essere più inclini a morire prematuramente per malattie cardiache e cancro rispetto a coloro che ne fa un uso limitato o nullo. Lo suggerisce uno studio comparso su Circulation e condotto da ricercatori americani, per lo più afferenti alla Chan School of Public Health di Boston.
Il forte consumo di bibite si è associato a un maggior rischio di morte prematura per qualsiasi causa del 28%, per malattie cardiache del 31% e per cancro del 16%. Il risultato è frutto dell’analisi di una gran mole di dati: 37.716 uomini e 80.647 donne esaminati lungo un follow-up pluridecennale, da 28 fino a 34 anni.
«Qui negli Stati Uniti – ha dichiarato il coordinatore dello studio, il nutrizionista Vasanti Malik – circa la metà della popolazione consuma almeno una bibita zuccherata al giorno. Sostituirle con altre bevande, in particolare con l’acqua, è una strategia efficace per migliorare la salute e la longevità».
Anche se, negli Stati Uniti, il consumo è complessivamente diminuito negli ultimi dieci anni, recentemente si sta assistendo a un nuovo leggero aumento e ogni persona assume mediamente 145 calorie al giorno attraverso il consumo di queste bevande. Lo studio assume un particolare valore per l’esteso campione preso in esame, ma non è un esperimento controllato in grado di dimostrare una causa diretta tra il consumo di bevande zuccherate e l’insorgenza di malattie, ha precisato Malik; è però probabile che sia gli zuccheri aggiunti che le calorie apportate da queste bevande abbiano un ruolo. Un elevato consumo potrebbe rendere le persone più esposte a sviluppare fattori di rischio per il diabete, per le malattie cardiache e altri problemi di salute cronici; inoltre, l’eccesso di calorie contribuisce all’obesità e a tutti i danni che ne conseguono. Quanto all’aumento del rischio di cancro osservato, secondo il ricercatore americano «riguarda probabilmente quei tumori legati all’alimentazione, tra cui il cancro al seno e, in misura minore, il cancro del colon».
Malik VS, Li Y, Pan A, De Koning L, Schernhammer E, Willett WC, Hu FB. Long-Term Consumption of Sugar-Sweetened and Artificially Sweetened Beverages and Risk of Mortality in US Adults. Circulation. 2019 Mar 18.
Un kit all’avanguardia che aiuta ad analizzare il microbioma individuale può fornire informazioni sulle ragioni per cui alcune persone dormono male: è una delle nuove tecnologie che sono state presentate al Consumer Digital Association 2019 Digital Health Summit di Las Vegas, sviluppate allo scopo di migliorare il sonno.
Non è facile dare al medico informazioni oggettive sulla qualità del sonno o spiegare perché si ha difficoltà ad avere un sonno profondo: è un problema complicato da descrivere e da risolvere.
Utilizzando il kit, i consumatori inviano un campione di feci a un laboratorio che, con una speciale tecnologia metagenomica, è in grado valutare la presenza di diversi batteri presenti nell’intestino.
Oltre all’effetto dei microrganismi sulla sensibilità al glutine, sull’infiammazione, sull’intolleranza al lattosio, sul peso e sul metabolismo, l’analisi esamina i livelli dei batteri che producono alcuni neurotrasmettitori coinvolti nei ritmi naturali del sonno, come la serotonina e l’acido gamma-amminobutirrico (GABA).
Il rapporto generato dall’analisi del microbioma fornisce informazioni sui modi in cui la dieta e lo stile di vita possono aiutare a cambiare la composizione batterica dell’intestino. Un secondo test viene raccomandato per verificare l’efficacia degli interventi.
Un’altra tecnologia presentata al summit permette di valutare la qualità del sonno. Si tratta in questo caso di una App che è in grado di capire se l’utente si trova in uno stato di veglia, di sonno leggero, di sonno profondo o di sonno REM: è sufficiente appoggiare il proprio smartphone sul comodino per rilevare, ogni 30 secondi, l’energia a radiofrequenza e a bassa potenza emessa dal corpo. Un algoritmo inserito nella App genera un punteggio da 0 a 100 per indicare la qualità del sonno della persona: i dati possono fornire a medici e pazienti informazioni oggettive.
Anche in questo caso, la strumento non si limita a misurare la qualità del sonno, ma propone tecniche di respirazione per il relax e fornisce consigli personalizzati; dispone inoltre di una sveglia intelligente che suona durante la fase di sonno leggero, quando il risveglio risulta meno traumatico.
Secondo Daniel Kraft, che si occupa di medicina e neuroscienze presso la Singularity University, un’organizzazione dedicata allo sviluppo tecnologico, questi sono gli esempi di un tipo di strumenti che sempre più ci permetterà di influire non solo sul sonno, ma su diversi aspetti della nostra salute: «Approfondimenti sul microbioma, monitoraggio del glucosio, dati metabolici dalla respirazione e molto altro, rilevabili con un semplice dispositivo portatile… la combinazione di tutto questo ci offre nuovi modi per ottenere informazioni dettagliate. Potremo utilizzare questi strumenti per tracciare non solo i segni vitali, ma anche i comportamenti, fornendo un aiuto per cambiarli e renderli più salutari»
La terapia biologica in pazienti con psoriasi grave si associa a miglioramenti significativi delle caratteristiche della placca coronarica, secondo una nuova ricerca coordinata da Nehal N. Mehta, del National Heart, Lung, and Blood Institute di Bethesda, negli Stati Uniti, e a pubblicata su Cardiovascular Research, una rivista della European Society of Cardiology.
La psoriasi grave si caratterizza per un rischio elevato di infarto miocardico precoce e tassi di malattia coronarica simili a quelli del diabete di tipo 2 e, nei pazienti che ne sono colpiti, l’entità della placca non calcificata è correlata in modo significativo sia con i tradizionali fattori di rischio cardiovascolare che con la gravità della psoriasi.
Mehta e colleghi hanno caratterizzato la placca coronarica prima e dopo la terapia in 121 individui con psoriasi da moderata a grave. Di questi, 32 hanno ricevuto un trattamento topico e 89 una terapia biologica, di tre tipologie differenti: anti-TNF, anti-IL12/23 o anti-IL17.
Dopo un anno di follow-up, nei pazienti trattati con farmaci biologici i ricercatori americani hanno è riscontrato una riduzione del 5% della placca coronarica totale e anche della placca non calcificata, mentre in quelli che erano stati sottoposti a terapia topica non si sono avuti miglioramenti significativi. Anzi, in questi ultimi soggetti la coronaropatia ha fatto segnare una progressione, e una parte della componente fibrosa della placca si è convertita in grasso-fibrosa, segnalando un’infiltrazione lipidica le cui conseguenze sono ben note: la parete fibrosa si assottiglia e può arrivare a rompersi, aumentando i rischi della formazione di trombi.
I pazienti trattati con terapia biologica sono migliorati anche dal punto di vista dell’infiammazione sistemica, nonostante gli stessi autori raccomandino cautela e sollecitino studi più ampi e randomizzati.
Tuttavia l’ottimismo è giustificato anche perché il risultato si aggiunge a quello di una precedente ricerca, in cui si era visto che la terapia biologica aveva ridotto il rischio di un nuovo evento cardiovascolare nei soggetti che avevano già avuto un infarto miocardico.
Le persone che mangiano molte proteine animali hanno maggiori probabilità di avere un eccesso di grasso nel loro fegato e un rischio più elevato di steatosi epatica non alcolica (NAFLD, non alcoholic fatty liver disease) rispetto alle persone la cui principale fonte di proteine sono i vegetali. Lo suggerisce uno studio olandese dell’Erasmus MC University Medical Center pubblicato sulla rivista Gut.
I ricercatori, coordinati dall’epatologo Sarwa Darwish Murad, hanno esaminato i dati ottenuti da scansioni del grasso del fegato e da questionari relativi alle abitudini alimentari di 3.882 persone, dall’età media di 70 anni: il 34% (1.337) risultavano affetti da NAFLD e, tra questi, 1.205 erano in sovrappeso.
Le persone in sovrappeso che assumevano la maggior parte delle proteine da alimenti di origine animale hanno evidenziato il 54% in più di probabilità di avere il fegato grasso rispetto alle persone che consumavano meno carne.
«L’associazione – ha spiegato Murad – si è mantenuta indipendentemente da altri elementi di rischio riconosciuti per la steatosi, come fattori metabolici e sociodemografici, lo stile di vita e, fatto particolarmente rilevante, anche dall’assunzione calorica totale».
I partecipanti allo studio senza fegato grasso hanno consumato in media 2.052 calorie al giorno, rispetto alle 1.996 calorie al giorno per le persone con fegato grasso; queste ultime hanno anche ottenuto una quota maggiore delle loro calorie totali dalle proteine. Il consumo di verdure è risultato simile in entrambi i gruppi, mentre le carni hanno rappresentato la differenza più evidente nel consumo di proteine.
Lo studio presenta dei limiti metodologici, riconosciuti dagli stessi autori, che hanno anche fatto riferimento a questionari, che possono essere poco affidabili, per valutare le diete dei partecipanti e l’apporto calorico, e non hanno raccolto altri dati relativi a possibili cause non dietetiche di accumulo di grasso nel fegato, come infezioni virali o l’assunzione di alcuni farmaci.
Ma questi risultati si aggiungono ad altre evidenze che confermano la potenzialità di abitudini alimentari sane di minimizzare il rischio di steatosi, anche quando le persone hanno un rischio genetico per questa condizione. Gli esperti suggeriscono che le persone dovrebbero limitare la carne rossa e lavorata e seguire una dieta mediterranea, ricca di cereali integrali, verdure e olio d’oliva.
La Food and Drug Administration (Fda) ha emesso un piano – atteso da tempo – per aggiornare i regolamenti dei prodotti per la protezione solare commercializzati negli Stati Uniti. La mossa potrebbe comportare importanti cambiamenti a filtri solari molto diffusi, molti dei quali contengono sostanze chimiche che, secondo l’agenzia regolatoria, non sono state dimostrate sicure.
«Da quando è stata fatta la valutazione iniziale di questi prodotti, abbiamo accumulato numerose nuove conoscenze sugli effetti del sole e sulle modalità di assorbimento delle creme solari attraverso la pelle», ha dichiarato in una nota il commissario della Fda Scott Gottlieb.
I prodotti da banco per la protezione dai raggi del sole sono regolamentati dalla Fda in base al Sunscreen Innovation Act, un processo messo in atto nel 2014, ma alcuni ingredienti possono essere commercializzati senza passare attraverso questo vaglio, perché sono generalmente considerati sicuri.
Il nuovo regolamento propone di mantenere la libera distribuzione, senza bisogno di altre approvazioni, di certi ingredienti e formulazioni, come ossido di zinco e biossido di titanio, ma due sostanze sono scomparse dall’elenco: il PABA e il salicilato di trolamine, oggi ritenuti “non sicuri” e, per altri dodici ingredienti, la Fda ha chiesto alle aziende produttrici nuovi dati che ne confermino la sicurezza.
Anche le etichette dovranno cambiare: gli ingredienti attivi dovranno comparire in primo piano e ci saranno indicazioni informative sulle conseguenze che l’eccessiva esposizione al sole comporta per l’invecchiamento della pelle e per il rischio di melanoma.
Il valore massimo del fattore di protezione solare (Spf) potrà passare da +50 a +60; «riteniamo che non ci siano dati a supporto di ulteriori benefici per un fattore superiore a 60», ha affermato Theresa Michele, direttrice della Divisione Prodotti da banco della Fda, ma l’agenzia propone di autorizzare prodotti con Spf fino a 80, per dare più flessibilità ai produttori. In ogni caso, anche i solari con protezione di almeno 15 dovranno garantire una protezione ad ampio spettro; poi, con l’aumento dell’Spf, dovrà crescere anche la protezione contro i raggi Uva. Come d’abitudine, la Fda sollecita la partecipazione alle decisioni da parte di addetti ai lavori e semplici cittadini, a cui sono lasciati tre mesi per inviare commenti e proposte.
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