Nei nostri studi sperimentali, abbiamo osservato che i soggetti che praticano da tempo lo Yoga tendono facilmente a respirare in modo più lento. Molti praticanti adottano spontaneamente il respiro a tre tempi, che, in inspirazione, mobilita prima il diaframma, poi torace basso e poi quello più alto. Queste persone, quando respirano aria povera di ossigeno, riescono a mantenere una ventilazione relativamente poco aumentata, ma al contempo incamerano una maggiore quantità di ossigeno, a differenza dei non praticanti che devono ventilare molto di più per ottenere lo stesso risultato.
Chi pratica Yoga ha quindi una maggiore efficienza ventilatoria e presenta una riduzione marcata dello stimolo a ventilare indotto dalla carenza di ossigeno. Questo fenomeno lo abbiamo osservato anche nelle popolazioni himalayane, esempio di efficace adattamento alla carenza di ossigeno presente in alta quota, che sembrano adottare spontaneamente questo tipo di respiro a tre tempi. Abbiamo anche osservato che i praticanti di yoga, probabilmente per effetto dell’allenamento, tendono a mantenere nel tempo questa caratteristica.
Una conferma di questo ragionamento giunge dalla nostra osservazione degli alpinisti della recente spedizione per il 50’ anniversario della conquista del K2. I scalatori che hanno raggiunto la vetta senza bisogno di ossigeno, presentavano, prima di iniziare la scalata finale, una ventilazione assai minore di quelli che, invece, non sono giunti in vetta o che, per giungervi, hanno dovuto ricorrere dell’ossigeno.
Le conseguenze pratiche di questi studi potrebbero essere importanti. La pratica yoga produce nel tempo un miglioramento dell’efficienza del respiro, riducendo gli stimoli ventilatori e migliorando il controllo del sistema circolatorio, con una riduzione dell’attività simpatica e un aumento del tono vagale. Nello scompenso cardiaco, per esempio, entrambi questi fattori sono assai importanti. Pare quindi utile affiancare le tecniche di controllo del respiro alla tradizionale terapia farmacologica.