L’aneurisma cerebrale è una protuberanza permanente, cioè una dilatazione focale di un vaso arterioso del cervello in corrispondenza della quale la parete si tende, assottigliandosi e formando una bolla. Può sfociare nella rottura della parete nel punto in cui il vaso risulta più fragile o assottigliato, causando una emorragia. La perdita di sangue nel cervello può essere causa di ictus emorragico.
cervello
Anoressia nervosa
L’anoressia nervosa è stata inserita nel DSM 5 (2013) nella più ampia categoria diagnostica chiamata Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione.
La caratteristica principale di questo disturbo è il rifiuto del cibo. Il termine anoressia (letteralmente mancanza di appetito) non risulta corretto per descrivere un disturbo in cui l’appetito è nella maggioranza dei casi conservato. Piuttosto ciò che caratterizza la persona anoressica è il terrore di ingrassare e la necessità di controllare l’alimentazione alla ricerca della magrezza.
Cefalee a grappolo
La cefalea a grappolo causa un dolore acuto alla tempia o intorno all’occhio, su un solo lato della testa, che dura per un periodo di tempo abbastanza breve (solitamente da 30 minuti a 1 ora). La cefalea si manifesta solitamente in modo regolare per un periodo da 1 a 3 mesi, seguito da un periodo asintomatico di mesi o anni.
Ictus: ischemico e emorragico
L’ictus è una malattia grave che si verifica in seguito alla riduzione, o all’interruzione, dell’afflusso di sangue al cervello (intendendo con questo termine il cervello, il cervelletto, ed il tronco encefalico racchiusi nella scatola cranica) e alla conseguente morte delle cellule cerebrali.
Si distinguono due forme: la più frequente, l’ictus ischemico, si verifica quando un coagulo di sangue ostruisce un’arteria che porta sangue al cervello; l’ictus emorragico è causato dalla rottura di un’arteria.
Si parla di attacco ischemico transitorio (TIA, transient ischaemic attack) quando l’afflusso di sangue al cervello si interrompe per breve tempo.
Neuroma di Morton
Il Neuroma di Morton è una neuropatia che consiste in un rigonfiamento di un nervo del piede che si trova tra il terzo e il quarto dito. La patologia prende il nome dal chirurgo americano Thomas George Morton, che per primo la diagnosticò nell’Ottocento. Il neuroma, con il passare del tempo, può portare allo sviluppo di tessuto cicatriziale fibroso attorno al nervo interessato dal disturbo a causa della continua frizione delle ossa metatarsali adiacenti e del legamento intermetatarsale profondo che, a livello del terzo spazio, sono più mobili rispetto ad altre parti del piede. La patologia, anche se può manifestarsi a tutte le età, colpisce soprattutto le donne di tra i 40 e i 50 anni.
OSAS – Sindrome delle Apnee ostruttive del sonno
Dall’inglese Obstructive Sleep Apnoea Syndrome ovvero Sindrome delle Apnee Ostruttive del Sonno. Si tratta di una patologia correlata all’ostruzione, parziale o completa, ripetitiva delle prime vie aeree a livello della gola, largamente sotto diagnosticata sia per la poca informazione a riguardo che per una sintomatologia confondibile. Si manifesta solitamente con sonnolenza diurna che trae origine da un sonno disturbato a causa delle vie respiratorie ostruite, che causano l’interruzione della respirazione. Rientra all’interno della macro-area delle malattie del sonno, più correttamente conosciute come “Disturbi del Sonno”.
Stimolazione cerebrale profonda (DBS – Deep Brain Stimulation)
La stimolazione cerebrale profonda (DBS dall’acronimo inglese Deep Brain Stimulation) è un trattamento chirurgico con l’obiettivo di ridurre i sintomi motori debilitanti che caratterizzano i disturbi del movimento come il Parkinson, la distonia e il tremore essenziale. Si tratta di una procedura utilizzata anche per curare l’epilessia, il dolore cronico e i disturbi ossessivo-compulsivi.
Trauma cranico: cause e cura
Il trauma cranico è, in generale, un danno al distretto cranio-encefalico, causato da qualsiasi evento fisico di tipo meccanico. Il trauma cranico è responsabile del 50% di tutte le morti traumatiche e del 2% di tutti i decessi.
Nelle società industrializzate la causa maggiore dei traumatismi cranici, nelle persone sotto i 75 anni, è legata a incidenti di transito (48%), in cui vi sia coinvolgimento di auto, motocicli o biciclette e pedoni. Per le persone al di sopra dei 75 anni, la maggioranza dei traumi cranici è dovuta a cadute accidentali ed incidenti domestici (25%). Nel 4% di tutti i traumi cranici si individua la violenza come causa (aggressione a scopo di rapina e ferite da arma da fuoco, rissa, litigio per futili motivi), nel 8% si rilevano infortuni sul lavoro e circa il 10% sono dovuti a ferite nel corso di attività sportive. Più del 50% dei pazienti con trauma cranico ha un grave politrauma associato. Per comprendere adeguatamente le molteplici lesioni che possono conseguirne, occorre preliminarmente spiegare i meccanismi del trauma cranico.
Tumore al cervello: cosa sapere
I tumori cerebrali non hanno sintomi tipici, perché inducono disturbi comuni a molte altre malattie del sistema nervoso. Questi sintomi dipendono dalle dimensioni del tumore e dalla parte del cervello interessata, perché ogni zona del cervello governa una particolare funzione, e se quella zona del cervello è colpita la funzione risulta alterata.
I disturbi più comuni alle persone con tumore cerebrale sono:
- Cefalea
- Crisi epilettiche
- Deficit di memoria
- Depressione
- Disturbi cognitivi e di comportamento
- Stanchezza cronica (Fatigue)
- Perdita di controllo dei movimenti o della sensibilità al tatto
- Trombosi venosa profonda
- Diminuzione dell’udito
- Diminuzione della vista
- Disfunzioni endocrine
Questa sezione descrive i sintomi più comuni delle persone che sono sottoposte a trattamento per i tumori cerebrali, e suggerimenti su come affrontarli.
Mens sana in corpore sano!
Già gli Antichi Romani erano a conoscenza della positiva correlazione tra esercizio fisico ed attività mentale. Ma non tutti gli sport sono uguali.
Quali sport favoriscono l’attività mentale e qual è la quantità di attività fisica ottimale?
A queste domande hanno cercato di dare una risposta un gruppo di ricercatori dell’Università di Basilea in Svizzera e dell’Università di Tsukuba in Giappone in uno studio pubblicato sulla rivista Nature Human Behaviour.
Uno sport che comprenda allenamenti basati sullo sviluppo di forza e resistenza sembra essere più efficace sul piano degli effetti sulle prestazioni cognitive. Effetti ancora più positivi derivano da quelle attività sportive che richiedono schemi di coordinamento complessi e l’interazione con altri giocatori.
Comunque i miglioramento cognitivo non sembra correlato con la maggiore intensità dell’allenamento, quanto piuttosto con la maggiore durata dello stesso.
I benefici riguardano tutte le fasce di età, potenzialmente soprattutto l’infanzia, quindi la fase di maggior sviluppo cognitivo, e la vecchiaia, che è la fase di degrado. In base ai risultati della ricerca però non è stato possibile definire un indicatore di efficacia delle differenti attività sportive secondo le diverse fasce di età. Si è visto invece che età diverse possono essere accomunate nella stessa attività sportiva, come per esperienze già in corso che vedono nonni e nipoti fare attività fisica insieme o uomini e ragazzi impegnati in attività sportive più intense.
Già sappiamo che il volume di attività sportiva è più importante per l’idoneità fisica degli uomini che per quella delle donne. Questo vale anche per l’idoneità mentale. Soprattutto in riferimento all’intensità del movimento. Mentre uomini e ragazzi godono di un significativo miglioramento, e per un periodo più lungo, delle prestazioni cognitive in seguito ad un duro allenamento e ad un aumento, anche se graduale, dell’intensità, per le donne il miglioramento delle capacità cognitive appare collegata con attività sportive di intensità da bassa a media.
Insonnia, individuate le aree del cervello a rischio
L’insonnia è molto diffusa, a livello mondiale, infatti sono circa 770 milioni le persone interessate al problema.
Tuttavia ancora poco noti i fattori che possono causare difficoltà nell’addormentarsi.
Un gruppo di ricercatori provenienti da più nazioni, diretto da scienziati di ricerca internazionale della Vrije Universiteit di Amsterdam ha messo a punto e pubblicato uno studio sulle pagine di Nature Genetics, che mette al centro della problematica quei processi cerebrali che agiscono sul rischio dell’insonnia.
Il disturbo
L’insonnia può essere definita come un disturbo frequente e persistente in cui la persona che ne è interessata si trova ad affrontare grosse difficoltà ad addormentarsi e soffre di risvegli frequenti, ai quali seguono altre difficoltà ad addormentarsi nuovamente, anche quando non sembrano esserci impedimenti ambientali.
Se questi disturbi persistono nel tempo e durano mesi , sicuramente si può parlare di insonnia cronica.
La scienza
Tutt’oggi la ricerca scientifica non ha potuto ancora individuare quali possano essere i geni responsabili ed i loro effetti negativi a livello cerebrale.
Per poter far luce nella ricerca Danielle Posthuma della Vrije Universiteit e Eus Van Someren dell’Istituto di neuroscienze olandese hanno costituito una squadra di scienziati, che per la prima volta sono stati in grado di mettere insieme tanti dati e informazioni sul dna e sulle specifiche abitudini del sonno di un vasto numero di persone, ben 1,3 milioni. Hanno utilizzato informazioni e risorse provenienti della banca dati Uk Biobank e della 23andMe, creando in questo modo il più importante e grande “set di dati genetici” fino a quel momento mai disponibile.
I geni identificati
I ricercatori sono riusciti ad identificare, sulla base dell’elaborazione della vasta quantità di dati osservati, il notevole numero di 956 geni, che secondo le diverse varianti potrebbero rappresentare i contributi per un aumento del rischio di insonnia.
In seguito i ricercatori hanno concentrato i loro studi per comprendere quali fossero i processi biologici, quali i tipi di cellule e quali le aree del cervello dai geni utilizzati.
Si è stabilito che alcuni dei geni studiati rivestono un ruolo importante nelle funzionalità degli assoni, cioè quei prolungamenti dei neuroni che partecipano allo scambio di informazioni tra le cellule nervose.
Gli scienziati sostengono che altri geni risultano essere attivi in specifiche cellule, i neuroni medi spinosi, che sono presenti nella corteccia frontale e nei nuclei subcorticali, quelle aree del cervello di cui si conosce la capacità di influenzare la qualità del sonno.
Trauma cranico chiuso
Nel caso di trauma cranico chiuso la perdita di coscienza può non essere immediata, infatti tra il momento del trauma e la comparsa dei segni neurologici possono intercorrere diversi minuti.
Per determinare lo stato di coscienza si ricorre alla Glasgow Coma Scale, attraverso cui un punteggio di 8 o inferiore a 8 determina un trauma grave.
È necessario assicurare al paziente una ventilazione controllata e trasferirlo in unità di cure intensive.
Fonte: Emergenze mediche in Pediatria di Mediserve
Che cosa danneggia il cervello (e come proteggerlo)
Centro di regia di ogni funzione fisica e psichica, il cervello è l’organo più complesso e delicato di tutto il corpo umano. Per questo è ben racchiuso e protetto dalle ossa del cranio e parzialmente isolato da ciò che avviene nel resto dell’organismo dalla barriera emato-encefalica. Nonostante questi due accorgimenti anatomico-funzionali, esistono un certo numero di fattori interni ed esterni all’organismo che possono danneggiarlo, in modo acuto o a distanza di tempo. Ecco quali sono i principali nemici del cervello e qualche consiglio per proteggerlo.
Ictus: ecco cosa fare
L’ictus è un’emergenza che mette in pericolo la vita. Si verifica quando un vaso sanguigno nel cervello si rompe o si ostruisce, a causa di un coagulo di sangue. In questo caso il cervello non riceve il flusso ematico di cui ha bisogno e senza ossigeno le cellule cerebrali non funzionano e muoiono in pochi minuti.
I segni d’allarme che indicano un possibile ictus sono: intorpidimento, debolezza o paralisi di un lato del corpo, visione offuscata, difficoltà nel parlare, perdita di equilibrio e cefalea improvvisa. Il 10% degli ictus è preceduto da un attacco ischemico transitorio, i cui sintomi sono rappresentati da brevi episodi simili a quelli dell’ictus. La media degli attacchi ischemici transitori dura 1 minuto, anche se alcuni durano perfino ore. A differenza dell’ictus la vittima torna normale alla fine dell’episodio ischemico. È comunque importante non ignorare i sintomi e portare il paziente in ospedale.
Cosa fare?
- Controllare i segni vitali.
- Mettere la vittima in posizione appropriata, se è cosciente sollevare la testa e le spalle. Se, invece, la vittima è priva di coscienza metterla sul fianco.
- Non dare nulla da bere o da mangiare.
- Chiamare l’ambulanza.
Fonte: Guida Tascabile di Pronto Soccorso di Mediserve
Il cervello femminile invecchia meno di quello maschile
L’invecchiamento del cervello umano varia molto da soggetto a soggetto: alcuni individui vanno incontro a un rapido declino cognitivo, mentre altri mantengono le loro capacità cognitive integre anche in età avanzata. Secondo alcuni studi, l’invecchiamento del cervello sarebbe legato soprattutto a una compromissione del metabolismo cerebrale, in particolare del glucosio, e non solo a fenomeni neurodegenerativi, che è la tesi attualmente più accreditata.
In questo filone di ricerche, si colloca un recente articolo, pubblicato su una prestigiosa rivista americana, in cui si è voluto dimostrare che le differenze sessuali sono in grado di influenzare la morfologia e la fisiologia del cervello durante lo sviluppo e l’invecchiamento.
Attraverso l’utilizzo di dati acquisiti tramite PET cerebrale da 205 soggetti adulti normali, in età compresa tra 20 e 82 anni, è stato scoperto che per tutta la vita adulta il cervello femminile, rispetto a quello maschile, ha un’età cerebrale metabolica persistentemente più bassa, rispetto all’età cronologica.
Secondo gli Autori dell’articolo, appartenenti alla Washington University School of Medicine di St. Louis, le differenze sessuali sarebbero in grado di influenzare l’invecchiamento cerebrale, a favore delle donne, il cui cervello, a parità di età anagrafica, risulterebbe di qualche anno più giovane di quello maschile.
FONTE
Manu S. Goyal et al. Persistent metabolic youth in the aging female brain. PNAS February 19, 2019 116 (8) 3251-3255.
Attività fisica e cognitiva proteggono il cervello delle donne
Qualunque attività fisica e cognitiva svolta dalle donne intorno ai 40-55 anni è in grado di proteggere le funzioni intellettive negli anni successivi della vita, riducendo il rischio di sviluppare declino cognitivo e demenza di vario tipo e livello di severità. Ve l’avevano già detto? Molto probabilmente, sì, perché gli studi in questo ambito condotti negli ultimi decenni sono stati molti.
Il valore aggiunto insito nei risultati della ricerca condotta presso l’Università di Göteborg (Svezia) è dato dal periodo di osservazione particolarmente prolungato (il follow-up è stato addirittura 44 anni) e dalla precisazione degli effetti protettivi dell’attività fisica e cognitiva nei confronti, rispettivamente, della demenza vascolare e della malattia di Alzheimer.
Lo studio, recentemente pubblicato sulla rivista di settore Neurology, ha coinvolto 800 donne con un’età media all’arruolamento di 44 anni (nell’intervallo 38-54 anni), selezionate nell’ambito della popolazione generale. Per tutte le partecipanti, all’inizio della valutazione sono state registrate le attività intellettive, artistiche, manuali, sociali, religiose e sportive abitualmente svolte ed è, quindi, stato avviato un monitoraggio periodico delle prestazioni cognitive, dal 1968 al 2012.
Nel corso del follow-up, 194 donne hanno ricevuto una diagnosi di demenza, 102 di malattia di Alzheimer, 27 di demenza vascolare, 41 di demenza mista e 81 di demenza associata a malattia cerebrovascolare. Tutte le diagnosi sono state formulate sulla base dei criteri previsti nel periodo di riferimento, tenendo conto degli esiti di interviste neuropsichiatriche, visite ed esami, dati raccolti nelle cartelle cliniche e nei registri di pazienti.
Dall’analisi delle informazioni disponibili è emerso che, in generale, le donne che si mantengono intellettualmente attive tra i 40 e i 55 anni hanno un rischio ridotto di circa un terzo (-34%) di sviluppare una forma di demenza. La protezione è risultata particolarmente marcata nei confronti della malattia di Alzheimer, il cui riscontro sarebbe praticamente dimezzato (-46%) rispetto alle donne meno inclini a leggere, studiare, ascoltare musica, seguire corsi, frequentare musei, andare a teatro o al cinema.
Ancora più favorevole si è dimostrato l’impatto dell’esercizio fisico, in particolare nei confronti delle demenze miste e delle forme correlate a malattie cerebrovascolari. Il rischio di sviluppare le prime è risultato, infatti, inferiore del 57% tra le donne fisicamente più attive, mentre quello di sviluppare demenza correlata a malattie cerebrovascolari è risultato diminuito del 53%.
L’entità di questi effetti preventivi è a dir poco sorprendente se si considera che, attualmente, la medicina dispone di ben poche armi (peraltro, di efficacia molto limitata) per proteggere da queste malattie neurodegenerative e che gli esiti citati sono stati ottenuti dopo aver escluso i principali fattori confondenti come il livello di istruzione, lo status socioeconomico, la presenza di ipertensione, diabete o malattie cardiovascolari, il peso corporeo, il fumo, lo stress e la depressione.
Naturalmente, prima di arrivare a conclusioni definitive, servono ulteriori conferme, ma nell’attesa vale la pena mettere al bando ogni pigrizia e provare a mantenersi il più possibile attivi intellettualmente e fisicamente, che ne dite?
Fonte
Najar J et al. Cognitive and physical activity and dementia. A 44-year longitudinal population study of women. Neurology 2019;92:e1322-e1330. doi:10.1212/WNL.0000000000007021 (https://n.neurology.org/content/92/12/e1322.long)
Il cervello dei minori abbandonati
Alterazioni di circuiti nervosi fondamentali, ma con l’affidamento familiare il recupero è possibile
Un gruppo di ricerca dell’Ospedale dei bambini di Boston della Harvard Medical School ha documentato, su JAMA Pediatrics, le alterazioni che si producono nei circuiti cerebrali di bambini vissuti negli orfanotrofi di Bucarest. Lo studio, iniziato nel 2001, fa parte di un progetto, denominato Bucharest Early Intervention Project, che coinvolge i 6 orfanotrofi della capitale romena, tre Università statunitensi con capofila Harvard, tre Fondazioni, con capofila Mac Arthur Foundation di Chicago, il cui obiettivo è esaminare gli effetti della istituzionalizzazione infantile sullo sviluppo del cervello e del comportamento e, al tempo stesso, verificare se l’affidamento familiare abbia la capacità di recuperare i danni cerebrali.
Le caratteristiche dello studio sono davvero uniche. 136 bambini attorno ai due anni di età, che stavano in orfanotrofio dalla nascita o comunque da pochi mesi dopo la nascita, sono stati divisi in modo casuale (random) in due gruppi, uno inviato in affidamento e l’altro che è rimasto in orfanotrofio. Una scelta che all’istante lascia perplessi, ma occorre sapere che, prima di questo progetto, a Bucarest non c’era un programma di adozioni, che quindi inizia con l’attività del gruppo statunitense, che copre le spese di affidamento e l’addestramento di assistenti sociali che avranno il compito di fornire un costante supporto alle famiglie affidatarie. Infine, lo studio ha previsto un gruppo di controllo formato da bambini di Bucarest della stessa età che vivono in famiglia. Tutti i bambini sono stati osservati per circa 8 anni ad intervalli regolari, monitorando il loro sviluppo intellettivo e comportamentale fino quindi a un’età compresa tra i 9 e gli 11 anni. Infine, un campione per ognuno dei tre gruppi è stato selezionato per essere sottoposto a una minuziosa ed estesa indagine cerebrale realizzata con la tecnica della Diffusione del tensore. Questa tecnica, in sigla DTI (immagini di diffusione del tensore), consente di visualizzare i fasci di fibre di materia bianca che connettono le aree cerebrali tra di loro.
I bambini in orfanotrofio hanno mostrato alterazioni nella microstruttura della materia bianca in una serie di circuiti e segnatamente: la parte centrale (cosiddetto body) del corpo calloso, il cingolo, la corona radiata, il fornice, la capsula esterna, l’area retro-lenticolare della capsula interna e il lemnisco mediale. Le immagini cerebrali di tutti questi circuiti cerebrali dei bambini istituzionalizzati, con l’unica eccezione dell’area retro-lenticolare della capsula interna, mostrano deficit di collegamento, che spiegano anche i disturbi comportamentali, cognitivi e nella gestione delle emozioni che, con maggiore frequenza, sono presenti in questi bambini abbandonati. Intrigante è l’eccezione dell’area retro-lenticolare della capsula interna che, invece d’ indebolirsi, si mostra ispessita e quindi più funzionale. Quest’area fa parte del sistema visivo ed è l’area sensoriale studiata assieme al lemnisco mediale, che è una via nervosa che trasporta la sensibilità dal corpo al cervello, che invece è deficitaria come tutti gli altri circuiti. Verrebbe da pensare che negli orfani istituzionalizzati ci sia una maggiore acutezza visiva, come necessità di stare sempre in allerta, e una scarsa sensibilità tattile, un ottundimento dei sensi dalla mancanza di carezze e più in generale da scarso contatto umano .
I bambini in affidamento invece mostrano immagini cerebrali del tutto simili ai bambini che vivono in famiglia, anche se alcune alterazioni nella materia bianca sono ancora visibili nel corpo calloso e nella corona radiata. Questo studio è di grande importanza non perché sia il primo. Da ultimo un lavoro del gruppo di RJ Davidson dell’Università del Wisconsin-Madison, su Biological Psychiatry del 15 febbraio, documenta, in bambini abbandonati o sottoposti ad abusi fisici o a miseria economica, alterazioni strutturali su aree di materia grigia fondamentali come l’amigdala e l’ippocampo. L’ importanza dello studio di Harvard sta nel fatto che è un disegno randomizzato controllato, di tipo prospettico con all’interno la dimostrazione che l’affidamento familiare non è solo un obbligo etico verso questi “innocenti” (da cui prese il nome il famoso orfanotrofio di Firenze), ma è anche un intervento sanitario efficace, che anche nel nostro Paese, che pur ha abolito a partire dal 2006 gli orfanotrofi, sarebbe il caso di estendere senza indugi. Sono circa 15.000 i minorenni affidati a case famiglia, che certamente non sono orfanotrofi ma che ovviamente non sono neanche una famiglia, con un costo economico stimato di oltre 40.000 euro l’anno a bambino. Questi soldi potrebbero essere spesi meglio.
di Francesco Bottaccioli
Una vita sedentaria influisce negativamente sulla memoria
Vita Sedentaria: Si sa che uno stile di vita troppo sedentario è fortemente negativo per la salute ed il benessere del nostro organismo. Stare troppe ore al giorno seduti su una sedia dietro ad una scrivania (come nel caso dei lavori d’ufficio o dello studio) o, ancor peggio, passare intere giornate sul divano a guardare la TV (magari accompagnando il tutto con degli snack non proprio salutari) sono abitudini che incidono fortemente e negativamente sulla nostra salute. Tra i rischi più diffusi ci sono sicuramente i problemi legati alla salute del nostro cuore, maggiormente soggetto a patologie pericolose negli individui troppo “amanti della poltrona”. Ma la lista è lunga e, oltre ai già citati problemi cardiocircolatori, include anche diabete e più in generale la possibilità di morte prematura.
Come se non bastasse, secondo un recente studio, uno stile di vita troppo sedentario avrebbe degli effetti negativi anche sul nostro cervello, in particolare sulla sezione che gestisce la memoria.
Lo studio
Secondo uno studio condotto dai ricercatori dell’Università della California di Los Angeles, che ha coinvolto circa 35 persone di età compresa tra i 45 e i 75 anni, una vita sedentaria porterebbe a dei cambiamenti significativi nella zona del cervello che è fondamentale per la memoria. Tutti i partecipanti alla ricerca si sono sottoposti, dapprima, ad un test conoscitivo per scoprire le loro abitudini e la loro routine quotidiana, con specifiche domande sulla loro (eventuale) attività fisica e sul numero medio di ore trascorse seduti durante l’arco della giornata. Le domande hanno interessato maggiormente il periodo che comprende la settimana antecedente al test.
Dopo il test tutti i partecipanti si sono sottoposti ad una risonanza magnetica ad alta risoluzione, per poter osservare con chiarezza il lobo temporale mediale, la porzione del cervello che è attivamente coinvolta nella formazione delle nuove memorie. Dagli esami effettuati si è potuto notare come uno stile di vita molto sedentario comporti l’assottigliamento della sezione temporale mediale del cervello. Una simile situazione può portare, con l’avanzare degli anni, al declino delle capacità cognitive dell’individuo e al manifestarsi della demenza.
Come rimediare
Lo studio ha anche fatto emergere che l’attività fisica da sola non basta a migliorare questa condizione e a proteggere la salute del nostro cervello. Occorre quindi modificare le proprie abitudini e il proprio stile di vita. Bisogna evitare di passare troppe ore della giornata consecutive seduti su una sedia ma sarebbe opportuno, di tanto in tanto durante l’arco della giornata, fare delle piccole passeggiate, anche di poche decine di minuti (basta pensare che per rimediare ad un’intera giornata trascorsa sulla sedia occorre fare almeno un’ora di passeggiata). I soggetti più a rischio sono quelli che svolgono un lavoro d’ufficio ma, anche in questo caso, occorre approfittare di tutti i momenti del giorno in cui si ha qualche minuto di pausa per fare dei piccoli esercizi fisici per sgranchire braccia e gambe. E’ anche utile partecipare agli eventi che promuovono uno stile di vita sano per apprendere utili consigli su come muoversi senza stravolgere la propria routine abituale.
Le emozioni mettono in moto il cervello degli adolescenti
Non è difficile pensare che uno stato emotivo particolarmente forte possa causare un aumento dell’attività cerebrale, soprattutto negli adolescenti. Il dato è interessante soprattutto se confrontato ad altri meccanismi che mettono in funzione il nostro cervello, meccanismi che però richiedono una partecipazione minore rispetto all’elaborazione delle emozioni. Questo tema è stato al centro di una ricerca molto interessante nata da una collaborazione tra IRCCS Medea e il Polo di Bosisio Parini dello stesso Istituto, con la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico e con la Università degli Studi di Milano, pubblicato sulla rivista Brain and Cognition.
L’esperimento
I soggetti della ricerca sono stati un gruppo di ragazzi di età compresa tra i 14 ed i 19 anni. E’ stato chiesto loro di leggere mentalmente, in due fasi ben distinte, prima dei verbi emotivi e successivamente dei verbi che descrivono azioni. In entrambi i casi i soggetti dovevano immaginare loro stessi nelle situazioni corrispondenti. Dallo studio delle risonanze magnetiche effettuate sui ragazzi che hanno preso parte all’esperimento, è risultato che l’interazione con i verbi che descrivono situazioni emotive causa un incremento di attivazione in due aree precise del cervello.
Secondo la responsabile del progetto, Barbara Tomasino, le zone del cervello che si “attivano” maggiormente in questa fase sono quelle in cui, stando alle parole dell’esperta, “viene codificata la consapevolezza emotiva legata alle parti del nostro corpo, come quando aumenta la sudorazione per uno stato d’ansia o accelera il battito cardiaco per la paura”. Tutto questo meccanismo non si attiva quando il cervello è impegnato a decodificare i verbi che descrivono azioni o una situazione emotiva ma con un compito di tipo cognitivo, come individuare una lettera specifica all’interno del verbo. Infatti, come afferma anche Barbara Tomasino: “Non basta quindi pensare al verbo amare perché si attivino le aree cerebrali coinvolte nella decodifica di questa esperienza emotiva, ma occorre immaginare anche le sensazioni corrispondenti all’amore”.
Questa particolare attività cerebrale, fortemente presente nei ragazzi, si manifesta anche nel cervello degli adulti, ma con un’intensità minore. Infine, secondo Paolo Brambilla dell’Università degli studi di Milano, questo interessantissimo studio “apre la strada verso l’approfondimento di quelle situazioni emotive che spesso si riscontrano in psicopatologia in ragazzi ed adulti sofferenti di ansia, fobie o depressione”.
Ora solare: ecco perchè fa bene al nostro cervello
Per molti l‘ora solare porta con sè molti aspetti negativi, legati al fatto che le giornate diventano più corte e l’oscurità della notte sopraggiunge più velocemente, dandoci l’impressione di non aver abbastanza tempo per svolgere le nostre regolari faccende quotidiane. In realtà non è proprio così, anzi per certi aspetti è il proprio il contrario. Rinunciare infatti ad un’ora di chiarore serale in cambio di un’ora di luce piena mattutina ha tantissimi effetti benefici sul nostro organismo, a partire proprio dal nostro cervello.
Ed è proprio su questi aspetti positivi che bisogna concentrarsi, soprattutto per quegli individui che risentono negativamente del passaggio dai mesi estivi (associati al caldo, alle vacanze e al relax) a quelli invernali (in cui si ritorna alla routine della scuola e del lavoro e le temperature si abbassano vertiginosamente). Come riporta un articolo sulla rivista The Conversation, un’ora di sole in più al mattino porta grande giovamento al nostro cervello, al nostro umore e rende la giornate molto più produttive. Vediamo perchè!
Natura e orologio autonomo
Tutta la vita sul nostro pianeta è scandita dall’alternanza di giorno e notte durante l’arco delle 24 ore. Questi due “momenti” della giornata scandiscono i nostri ritmi ed influenzano le nostre funzioni biologiche, al di là di quanto si possa percepire con la vista. Per questo motivo infatti ci viene sonno con l’avvicinarsi della sera, ed è più difficile svegliarsi se ci si trova in un ambiente ancora buio. L’intensità della luce infatti è percepita da speciali cellule della retina collegate in modo diretto con il nucleo soprachiasmatico, un gruppo di neuroni che si occupa di regolare i ritmi circandiani ( le variazioni delle attività biologiche ) del nostro organismo. Ed è proprio qui che è situato quello che più comunemente chiamiamo “orologio biologico”.
Partire al massimo grazie al sole
Tutto questo meccanismo permette la nostro cervello di regolare la quantità di ormoni da produrre in base alla quantità di luce che ci circonda. Circa 30 minuti dopo il risveglio mattutino, vi è un importante rilascio di cortisolo (detto cortisol awakening response, CAR). Questo ormone è fondamentale per far iniziare la giornata con la giusta grinta ed energia necessaria. Maggiori quantità di cortisolo infatti sono state associate ad una più elevata capacità di apprendimento e ad una migliore plasticità cerebrale, oltre che una più spiccata abilità nel prendere decisioni e pianificare. Il rilascio di questo ormone avviene in maniera più decisa quando ci svegliamo in un ambiente pieno di luce naturale e i suoi effetti benefici sull’organismo sono maggiori.
Per questo motivo poter disporre di un’ora di luce solare in più al mattino non fa altro che darci una carica maggiore per iniziare al meglio e senza affanni la nostra routine quotidiana.