Prima di ogni apnea, che sia statica, dinamica o profonda, è buona norma prendersi un tempo in cui ci si isola e ci si rilassa, respirando in tranquillità e consapevolezza, staccando la mente come in una sorta di meditazione, per sgombrarla da ansie e da stress.
Statica:
l’atleta entra in acqua e si trova generalmente in una zona della piscina in cui si ha piede e vicino al bordo. Indossa la maschera o gli occhialini ed un tappanaso e respira dolcemente dalla bocca. Quando si sente pronto, prende il suo ultimo respiro – che generalmente è più consistente di quelli fatti durante la sua preparazione (un esperto utilizza la carpa o la respirazione glosseo faringea) – e mette la testa in acqua, restando steso a pancia in sotto sul pelo della stessa.
Adotterà tutte le tecniche imparate sino a quel momento per distogliere la sua attenzione dal trascorrere del tempo. Arrivano le contrazioni, che saranno via via più importanti, ed egli continuerà nel percorso mentale col quale si è allenato. Quando decide di tirare su la testa, prenderà dei bei respiri profondi e poi darà un ok, per mostrare la consapevolezza di sé ed il suo buono stato di salute.
Dinamica:
l’atleta è in acqua aspettando la partenza. Respira dolcemente. Quando arriva il momento prende aria e, generalmente, un apneista esperto immagazzinerà un’enorme quantità di aria, utilizzando il metodo della carpa o la respirazione glosseo faringea.
Comincia la performance durante la quale nuoterà utilizzando il ritmo ed i percorsi di rilassamento prefissati durante gli allenamenti. Anche qui ci saranno molti momenti in cui si ha la tentazione di mettere fuori la testa dall’acqua, anche perché, rispetto ad un’apnea profonda, in cui l’apneista non si trova a ridosso della superficie, nella statica e nella dinamica, per ogni secondo che passa e per ogni metro che si percorre, è sempre lui stesso che decide se interrompere o meno la prova: è, di volta in volta il subacqueo che sceglie, secondo dopo secondo o metro dopo metro, di proseguire o di fermarsi, l’aria è a portata di mano!
In profondità il discorso è diverso, poiché la superficie la dobbiamo raggiungere, per cui la lotta mentale che ingaggiamo non è “metto o non metto” la testa fuori dall’acqua, ma non lasciarsi prendere dallo sconforto di non farcela, di essere ancora lontani e quindi di volere accelerare per tornare a respirare il prima possibile.
La pinneggiata
Non esiste una pinneggiata valida per tutti: essa varia a seconda dell’altezza dei soggetti, della loro corporatura, del tono muscolare, del tipo di pinne (o di monopinna) che si usano e della rispettiva durezza e della disciplina con cui ci si confronta. Rispetto a quest’ultima cosa, infatti, mentre nell’apnea dinamica la pinneggiata è o dovrebbe essere più o meno costante durante tutto il tragitto compiuto dall’atleta, quando si va in profondità, l’azione del pinneggiare varia moltissimo se ci si trova all’inizio del tuffo, a metà od alla fine. Subito dopo la capovolta iniziale, infatti, il profondista adotta una pinneggiata più energica, per superare l’assetto positivo e la spinta di galleggiamento.
Superati i primi metri, rallenta vieppiù il ritmo, fino a smettere del tutto di pinneggiare, quando sarà arrivato al punto in cui avrà un assetto negativo: qui sfrutterà il naturale fenomeno di affondamento, lasciandosi semplicemente cadere verso il fondo.
Giunto al suo target, però, per cominciare la risalita, dovrà nuovamente pinneggiare con forza nei primi metri, per attuare quello che si chiama stacco dal fondo e contrastare il forte assetto negativo che lo trascina verso il basso. A mano a mano che risale troverà il suo ritmo ideale, considerando il rapporto tra consumo energetico e metri percorsi. Quando si avvicina alla superficie ed avverte che la muta, che si era schiacciata a causa della pressione, sta tornando al suo spessore originario e che è entrato o sta per entrare in una zona di assetto positivo, può allora rallentare e raggiungere felicemente l’aria senza ulteriori sforzi. La riduzione nella frequenza e nella forza della pinneggiata è, a questo punto, preziosissima proprio per risparmiare le ultime riserve di ossigeno e tornare a galla incolumi.
Ricapitolando:
una buona pinneggiata è quella con la quale c’è un consumo minimo di energia rapportato ad un buon numero di metri percorsi. Il giusto movimento, inoltre, deve partire dall’anca ed arrivare fino alla punta delle dita dei piedi, per dare così un impulso con tutta la gamba e dirigere bene il lavoro delle pale e farle muovere nella loro interezza. Non bisogna piegare le ginocchia e fare quel dispendioso lavoro di “pedalata”, né tendere con i piedi verso l’interno o l’esterno.
di Mariafelicia Carraturo
www.feliciacarraturo.it