Il Centro Controllo Malattie ha aggiunto parecchi sintomi alla lista di quelli del Coronavirus. Nel frattempo, in molti ospedali a New York stanno testando sui pazienti da Covid-19 un farmaco comune, solitamente impiegato nella terapia del reflusso per verificare se può contribuire a sconfiggere il virus. Gli ultimi aggiornamenti.
farmaci
Crisi epilettica: cosa fare?
Le crisi epilettiche sono autolimitanti e molto spesso non consentono un intervento rapido. È necessario, quindi, tener presenti alcune indicazioni:
- Prevenire lezioni che il paziente potrebbe procurarsi in modo involontario
- Osservare la crisi
- Liberare le vie respiratorie da eventuali ostacoli e collocare il paziente in posizione di sicurezza
- Evitare di introdurre oggetti tra i denti.
La terapia deve essere stabilita da uno specialista e solitamente il farmaco scelto è il diazepam. Per le convulsioni febbrili, più frequenti nei bambini, è necessario somministrare il farmaco per via rettale e sarà utile ridurre la temperatura corporea praticando spugnature di acqua fresca su tutto il corpo e somministrando antipiretici. Di solito quando il medico visita il bambino, la crisi è già finita, ma nel caso in cui si dovesse protrarre è consigliabile il ricovero in ospedale per opportuni accertamenti.
Fonte: Handbook della Guardia Medica a cura di Piercarlo Salari
Esketamina: il nuovo farmaco anti depressione approvato in Usa
Un nuovo farmaco è stato approvato dalla Fda (Food and Drug Administration) uno spray nasale, a base di esketamina, un principio derivato della ketamina, che sembra alleviare i sintomi della depressione. Alcuni esperti sono apparsi scettici sul nuovo farmaco.
Lo spray nasale
L’agenzia governativa ha approvato lo spray a base di esketamina. Esso parte della molecola dell’anestetico ketamina che sembra agisca già in poche ore, per cui potrà diventare quindi il primo farmaco ad azione rapida per le depressione disponibile sul mercato americano.
Pareri contrastanti
I pareri della comunità medica sono da subito apparsi contrastanti e si sono presto divisi: c’è chi ha accettato di buon grado l’arrivo del nuovo farmaco contro la depressione ed altri che, invece, hanno manifestato dubbi e scetticismo sulla sostanza.
I più critici sostenevano che il nuovo farmaco era stato approvato troppo velocemente e, soprattutto, non tenendo conto dell’elevato rischio di abuso della sostanza, talvolta utilizzata impropriamente come droga dagli effetti psichedelici.
La ketamina
Infatti non si tratta soltanto di un farmaco, ma anche di una droga. La ketamina, infatti, è certamente un farmaco anestetico, ma contemporaneamente anche una droga pesante, e per questo motivo occorre cautela e mettere in guardia il pubblico sul potenziale abuso.
La facoltà di somministrazione dell’esketamina tramite uno spray nasale non implica che i pazienti potrano utilizzarla in modo autonomo. Il farmaco, infatti, sarà disponibile solo in cliniche certificate nelle quali i pazienti potranno essere seguiti e monitorati dai medici , una decisione della Fda che mira sicuramente a ridurre in modo significativo il rischio di abuso e di dipendenza.
Va inoltre considerato anche l’aspetto economico visto che un ciclo di trattamento costerà circa 7mila dollari.
Effetto rapido
Il nuovo farmaco , sviluppato dalla società farmaceutica Janssen, differentemente dalla maggior parte degli antidepressivi disponibili, che i cui effetti desiderati possono richiedere anche un tempo terapeutico di 4-6 settimane , è in grado di agire in poche ore e sarà diretto ai soli pazienti nei quali non hanno avuto successo altre terapie.
Strategie utili per curarsi al meglio
Dover assumere regolarmente farmaci per tenere sotto controllo una o più malattie croniche è un’esigenza abbastanza comune, ma altrettanto comune è scordarsene di tanto in tanto o commettere qualche errore. Raramente si tratta di inconvenienti che espongono a seri rischi, ma se dimenticanze e imprecisioni si ripetono con una certa frequenza la probabilità che la terapia perda parte della propria efficacia è abbastanza alta. Ecco qualche accorgimento per rispettare fedelmente schemi di assunzione e posologia dei farmaci prescritti dal medico senza troppa fatica, anche grazie all’aiuto della tecnologia.
Farmaci pro-aritmici: serve più attenzione
La sindrome del QT lungo congenita è una condizione cardiaca presente fin dalla nascita che consiste essenzialmente in un “difetto di ripolarizzazione”, ossia in un’alterazione elettrofisiologica che comporta un allungamento del tempo necessario affinché le cellule del cuore possano “ricaricarsi” dopo la contrazione dei ventricoli. Il nome della malattia deriva dal fatto che questo maggior tempo di ripolarizzazione può essere visto sul tracciato dell’elettrocardiogramma (ECG) come l’allungamento di un particolare segmento chiamato appunto “QT”.
Di per sé, la sindrome del QT lungo non dà sintomi e per questa ragione è poco diagnosticata, se non in occasione di elettrocardiogrammi richiesti per altre ragioni, come esami pre-operatori, check-up preliminari alla pratica sportiva, svenimenti apparentemente immotivati o disturbi cardiologici di altra natura. Purtroppo, quando si manifesta lo fa in modo eclatante, con fibrillazione ventricolare, arresto cardiaco e morte improvvisa. A scatenare questi effetti possono essere uno sforzo fisico o un’emozione molto intensi oppure uno spavento o un risveglio improvviso nel cuore della notte. Ma, talvolta, l’aritmia fatale può insorgere anche durante il sonno.
A oggi, non esistono cure vere e proprie per la sindrome del QT lungo, ma esistono alcuni accorgimenti che possono aiutare a ridurre i rischi. Tra questi, uno molto importante riguarda i farmaci che può essere necessario assumere nel corso della vita per le ragioni più diverse: dagli antibiotici agli analgesici, dagli antiacidi agli antidepressivi. Molti farmaci d’uso comune, infatti, tendono ad avere un’azione “pro-aritmica”, ossia a favorire alterazioni transitorie del ritmo cardiaco. In persone senza sindrome del QT lungo, in genere, ciò non crea particolari problemi (salvo forse qualche palpitazione in corso di terapia). Al contrario, se ad assumere un farmaco pro-aritmico è una persona con sindrome del QT lungo, il rischio di fibrillazione ventricolare e di morte improvvisa aumentano sensibilmente.
Per questa ragione, le linee guida della Società Europea di Cardiologia (ESC) dedicate a questa patologia raccomandano da tempo, e con forza, che farmaci notoriamente pro-aritmici non siano prescritti a chi ne soffre, optando, ove possibile, per soluzioni terapeutiche alternative prive di effetti a livello cardiaco. In pratica clinica, tuttavia, queste raccomandazioni sembrano essere ampiamente disattese. In particolare, un recente studio danese indica che al 60% delle persone con sindrome del QT lungo congenita vengono prescritti i farmaci pro-aritmici negli anni successivi alla diagnosi, anche per periodi prolungati.
I farmaci “a rischio aritmia” maggiormente prescritti sono risultati essere alcuni antibiotici (come azitromicina, claritromicina ed eritromicina; 34,1%), antiacidi inibitori della pompa protonica (esomeprazolo, lanzoprazolo, omeprazolo, pantoprazolo; 15,0%), antidepressivi (citalopram, escitalopram, sertralina; 12,0%) e antimicotici (fluconazolo; 10,2%). Le persone considerate nello studio avevano una probabilità minore di vedersi prescrivere i farmaci pro-aritmici nell’anno successivo alla diagnosi di sindrome del QT lungo congenita rispetto all’anno precedente, ma non di molto (28,4% vs 23,2%), mentre in oltre un terzo dei casi (33,5%) la terapia farmacologica a rischio era ancora in corso dopo cinque anni. La probabilità di prescrizione di farmaci a rischio aumentava leggermente con l’età e si moltiplicava di oltre 2,5 volte quando lo stesso farmaco era già stato assunto dal paziente in precedenza (probabilmente, sulla scorta di una erronea rassicurazione rispetto ai possibili effetti collaterali a livello cardiaco).
Benché lo studio non abbia evidenziato una correlazione tra uso di farmaci pro-aritmici e aumento della mortalità per aritmia ventricolare o per tutte le cause, gli Autori e gli esperti della ESC sollecitano maggiore cautela da parte dei medici al momento della prescrizione di terapie farmacologiche potenzialmente a rischio in chi soffre di sindrome del QT lungo congenita. D’altro canto, anche i pazienti con diagnosi nota devono ricordare di informare sempre della problematica cardiaca di cui soffrono eventuali medici specialisti da cui si recano spontaneamente per consulti in vari ambiti clinici, per permettergli di individuare strategie di cura ottimali e sicure.
In aggiunta, chi soffre di sindrome del QT lungo congenita dovrebbe sempre chiedere consiglio al medico e/o al farmacista anche quando si tratta di scegliere farmaci da banco d’uso comune considerati generalmente sicuri e maneggevoli: benché effettivamente lo siano per gran parte delle persone, alcuni di essi potrebbero essere controindicati in chi è geneticamente predisposto alle aritmie cardiache (è il caso, per esempio, di alcuni antistaminici).
Fonte:
Weeke PE et al. Long-termproarrhythmic pharmacotherapy among patients with congenital longQT syndrome and risk of arrhythmia and mortality. European Heart Journal 2019;40, 3110-3117. doi:10.1093/eurheartj/ehz228 (academic.oup.com/eurheartj/article/40/37/3110/5488147)
Capelli che cadono più del solito? Ecco perché
I capelli risentono fortemente dello stato di salute generale dell’organismo, ma anche dello stile di vita che si conduce, del livello di stress, dei farmaci che si assumono e, sia negli uomini sia nelle donne, dei livelli ormonali. Mangiare in modo disordinato, essere ansiosi o depressi, non bere o dormire abbastanza, fumare, non assumere vitamine e sali minerali a sufficienza, ma anche essere in gravidanza o in menopausa o soffrire di malattie acute o croniche specifiche possono influenzare lucentezza, vitalità e densità della chioma, spesso con esiti poco felici. Un elenco dei principali fattori che possono aumentare la caduta dei capelli e qualche consiglio per porvi rimedio.
L’allergia agli acari peggiora in autunno: come difendersi
Farmaci da banco: ne state usando troppi?
I farmaci “da banco” od OTC (sigla dell’inglese Over-The-Counter) sono rimedi preziosi per alleviare molti comuni disturbi, fastidiosi ma non gravi, che possono occasionalmente presentarsi nella vita quotidiana, senza doversi recare per forza dal medico per ottenere la ricetta. Il loro libero acquisto in farmacia è consentito perché decenni di impiego da parte di milioni di persone ha dimostrato che i farmaci OTC sono efficaci e sicuri quando assunti ai dosaggi e secondo le modalità indicate sui foglietti illustrativi o sulle confezioni e che sono semplici da gestire anche senza disporre di conoscenze mediche specifiche. Tuttavia, per trarne i benefici attesi senza non correre rischi, non se ne deve abusare: soprattutto di questi.
Malattia di Alzheimer: attenzione a quei farmaci
Nonostante intense ricerche, le cause della malattia di Alzheimer continuano a essere sostanzialmente sconosciute. Da tempo, si ritiene che soprattutto due fattori proteici, le placche di ß-amiloide e la proteina Tau, siano coinvolti nella sua insorgenza. Ma non tutti i neurologi ne sono convinti e, comunque, resta da capire che cosa determina la formazione di queste sostanze tossiche per le cellule cerebrali e qual è la loro esatta azione.
Indubbiamente, la predisposizione genetica individuale gioca un ruolo importante nel determinare entità e velocità del declino cognitivo, ma studio dopo studio diventa sempre più evidente il contributo negativo di diversi fattori ambientali che possono interferire con la funzionalità e l’integrità delle cellule cerebrali, in modo diretto o indiretto: dalle sostanze assunte con gli alimenti all’inquinamento, da fonti di stress ossidativo ai farmaci.
Proprio riguardo a questi ultimi, un nuovo invito all’attenzione viene da uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Nottingham (Regno Unito) che ha indagato l’impatto sulle prestazioni intellettive e sul loro deterioramento associato all’età dei principi attivi anticolinergici: una classe di medicinali comprendente molecole utilizzate per trattare innumerevoli condizioni cliniche e il cui impiego è molto diffuso tra gli anziani.
Sono anticolinergici, per esempio, l’amitriptilina e la paroxetina (due antidepressivi d’uso comune), alcuni antipsicotici (quetiapina, olanzapina, clorpromazina), antistaminici di prima generazione come prometazina (usati contro allergie e disturbi del sonno), la furosemide (un diuretico indicato in caso di ipertensione, insufficienza cardiaca e altre malattie associate a ritenzione idrica), l’amantadina (per il controllo della malattia di Parkinson), la colchicina (prescritta in caso di attacchi acuti di gotta) e il baclofen (un miorilassante ad azione centrale).
Analizzando le cartelle cliniche di circa 58.800 pazienti con diagnosi di demenza e di 255.600 soggetti senza diagnosi di demenza (tutti di età superiore a 55 anni e inclusi nei registri dei medici di famiglia britannici), i ricercatori hanno evidenziato una correlazione tra assunzione di farmaci anticolinergici come quelli citati e aumento del rischio di sviluppare malattia di Alzheimer.
In particolare, le persone over 55 anni che avevano fatto un uso cronico di questi medicinali per più di tre anni, ai dosaggi maggiori o nelle versioni “più attive”, presentava un rischio di demenza nei 10 anni successivi del 50% superiore a quello di chi non li aveva mai assunti.
Responsabili del più consistente aumento del rischio di malattia di Alzheimer sono risultati essere gli antipsicotici (+70%), gli antimuscarinici usati contro l’incontinenza urinaria (+65%) e gli anti-parkinsoniani (+52%), mentre antidepressivi e antiepilettici sembrano avere un impatto più contenuto, ma comunque non trascurabile (rispettivamente, +30% e +40%), soprattutto alla luce del fatto che, al momento, contro la malattia di Alzheimer non si dispone di terapie efficaci.
Come comportarsi quindi? Naturalmente, se un farmaco anticolinergico è assolutamente necessario per trattare un problema di salute significativo deve essere usato. Ma questa necessità va valutata con cautela, optando per terapie alternative più sicure ogniqualvolta sia possibile e, soprattutto, evitando di somministrare questi medicinali in modo cronico, per diversi anni, se il beneficio che si ottiene è modesto e non tale da giustificare i potenziali rischi per la salute cerebrale.
Fonte
Coupland CAC et al. Anticholinergic Drug Exposure and the Risk of Dementia: A Nested Case-Control Study. JAMA Intern Med 2019; doi:10.1001/jamainternmed.2019.0677 (https://jamanetwork.com/journals/jamainternalmedicine/fullarticle/2736353?widget=personalizedcontent&previousarticle=2736349)
Farmaci: gli errori da evitare
Qualcuno non vorrebbe assumerli mai; altri vorrebbero una pillola per curare ogni malessere e non uscirebbero di casa senza un kit d’emergenza nella borsa. In pochi ambiti come nell’impiego dei farmaci gli atteggiamenti delle persone sono così diversificati da contemplare tutte le sfumature tra gli opposti. Ciò che accomuna tutti, o quanto meno la maggioranza, è la possibilità di commettere errori d’assunzione, in difetto o in eccesso, a causa di dimenticanze, imprecisa comprensione delle indicazioni fornite dal medico o riportate sui foglietti illustrativi, pregiudizi o false convinzioni che portano a “rivedere” dosaggi e durata delle terapie in modo fantasioso, con il solo risultato di ridurre efficacia e sicurezza dei medicinali assunti. Qualche avvertenza d’uso per curarsi al meglio.
Ricoveri e morti in Inghilterra e Galles
In Gran Bretagna il tipo di avvelenamento più diffuso è quello acuto. Dagli anni ’70 fino ad oggi c’è stato un incremento progressivo di morti per avvelenamento. Nonostante le statistiche ufficiali mostrino che la maggior parte dei casi sia accidentali, un’analisi più approfondita rivela intenzionalità in molti di essi. In Gran Bretagna l’omicidio per avvelenamento sembra sia raro, in quanto la maggior parte degli assassini sono impulsivi. Molti di coloro che decidono di suicidarsi con il veleno muoiono prima di arrivare in ospedale, in quanto spesso sono così decisi a morire, che si assicurano che nessuno possa opporsi al loro progetto.
Le statistiche epidemiologiche in Inghilterra e Galles sono simili a quelle di altri stati come la Scozia. Negli stati “sviluppati” i bambini piccoli sono molto più protetti di prima dalla malnutrizione, dalle infezioni e dai traumi. Ad essere aumentate sono i casi in cui i bambini ingoino non volendo sostanze tossiche. In Inghilterra e Galles ogni giorno muoiono centinaia di bambini al di sotto dei 10 anni per avvelenamento e la maggior parte di essi perché ingeriscono monossido di carbonio. In contrapposizione ai ricoveri, la mortalità di questi bambini è molto bassa, soprattutto se si pensa che solo in pochi restano in ospedale più di una notte e quindi non realmente affetti da avvelenamento. Ovviamente, per quanto riguarda i bambini piccoli è normale che essi mettano in bocca qualsiasi cosa e spesso capita che ingeriscano medicinali lasciati incustoditi ed alla loro portata.
L’avvelenamento accidentale dell’adulto può dipendere da diversi fattori, tra cui gas e vapori tossici, insieme ad alcuni metalli come il piombo. Quando si parla di auto-avvelenamento, l’accusa cade su quei farmaci capaci di dare uno stato di incoscienza. Alcuni possono essere acquistati liberamente senza ricetta medica, altri invece no. Al momento i barbiturici non sono più al primo posto tra i medicinali più utilizzati, in quanto n’è stata limitata la prescrizione. Il loro posto è stato preso da antidepressivi, sedativi, tranquillanti, ipnotici e da tutti quei farmaci che ogni giorno vengono utilizzati per trattare affezioni psiconeurotiche.
Fonte: Vademecum di terapia degli avvelenamenti di Roy Goulding
Batteri intestinali schierati a combattere l’ansia
L’intestino umano ospita miliardi di batteri che nel loro complesso formano il microbiota intestinale, il cui ruolo cruciale nella digestione è noto da tempo. Ma un numero crescente di evidenze scientifiche sta evidenziando che questi microrganismi influenzano anche il nostro comportamento e persino il nostro cervello. Ora, gli autori di una nuova revisione sistematica mostrano che determinare un cambiamento nella nostra flora intestinale può costituire un metodo efficace per alleviare i sintomi degli stati ansiosi.
I ricercatori della Scuola di Medicina dell’Università Jiao Tong di Shanghai hanno analizzato 21 studi incentrati su interventi per trattare l’ansia attraverso la modulazione dei batteri intestinali. La revisione, che ha coinvolto 1.503 soggetti ed è stata pubblicata sulla rivista General Psychiatry, ha confermato che alcuni approcci sono davvero efficaci.
Per manipolare i batteri intestinali nei partecipanti, sono stati usati due approcci principali: in sette degli studi inclusi nell’analisi è stato modificato il regime alimentare dei pazienti, mentre negli altri 14 sono stati somministrati supplementi probiotici. I probiotici, a cui spesso ci si riferisce come “batteri buoni”, si trovano in determinati alimenti e possono aiutare a riequilibrare una flora intestinale impoverita. Degli studi sui probiotici, sette hanno usato un solo tipo di batteri, due ne hanno impiegati due tipi, mentre i rimanenti cinque hanno fatto ricorso a tre o più ceppi batterici.
In tutti gli studi esaminati, i ricercatori cinesi hanno rilevato un effetto positivo; in alcuni casi è stato di entità modesta, ma in undici di loro si è avuto un marcato miglioramento dei sintomi di ansia: cinque attraverso l’approccio probiotico e sei con quello dietetico. La revisione ha anche permesso di migliorare la nostra conoscenza riguardo alla combinazione dei tradizionali farmaci per l’ansia con l’intervento sui batteri intestinali: a questo propósito, gli autori hanno scoperto che i miglioramenti si sono avuti solo affiancando ai farmaci gli interventi dietetici e non con l’assunzione di probiotici.
Presi da soli, gli interventi sulla dieta hanno avuto un tasso di efficacia dell’86%, che potrebbe essere correlata alla crescita più efficace di diversi tipi di batteri in seguito al cambiamento del regime alimentare. Riguardo invece all’integrazione con probiotici, gli esperti ipotizzano che i batteri presenti negli integratori potrebbero entrare in competizione gli uni contro gli altri e non produrre di conseguenza le modifiche desiderate al microbioma intestinale. È anche possibile che solo alcuni tipi di batteri facciano la differenza e individuarli sarà compito delle prossime ricerche.
Yang B, Wei J, Ju P et al. Effects of regulating intestinal microbiota on anxiety symptoms: A systematic review
General Psychiatry 2019;32:e100056.
Frutta e verdura prescritti dal medico? Risparmi sorprendenti per il sistema sanitario
Alimenti sani prescritti come se fossero farmaci: un nuovo studio pubblicato in marzo su PLoS Medicine suggerisce di adottare questa strategia negli Stati Uniti per i beneficiari di Medicare e Medicaid – i due principali programmi federali di assicurazione sanitaria – con lo scopo dichiarato di ridurre il rischio di malattie croniche, come quelle cardiovascolari o il diabete, e allo stesso tempo abbassare i costi delle cure.
Facendo uso di modelli computerizzati, i ricercatori della Tufts University di Boston hanno stimato che le prescrizioni di cibi sani potrebbero prevenire milioni di eventi cardiovascolari, come infarti e ictus, e far risparmiare miliardi di dollari in costi sanitari.
Per effettuare le simulazioni, gli autori hanno incluso persone con un’età compresa tra i 35 e gli 80 anni e iscritte a Medicare o Medicaid; come parte della modellizzazione, hanno utilizzato i dati delle tre più recenti indagini sulla salute e sull’alimentazione dei cittadini statunitensi, oltre a quelli prodotti da studi pubblicati in letteratura e meta-analisi che includevano informazioni demografiche, abitudini dietetiche, e costi sanitari.
Nello studio sono state esaminate diverse ipotesi: tra queste una stima dell’impatto che potrebbe avere uno sconto del 30% per l’acquisto di cibi salutari prescritti dal medico.
Già limitando le prescrizioni a frutta e verdura, oggi consumate in quantità insufficiente negli Usa, si è calcolato che gli eventi cardiovascolari evitati potrebbero essere di 1,93 milioni, con un risparmio complessivo di 39,7 miliardi di dollari. Quando hanno eseguito la stima ipotizzando una più ampia prescrizione di alimenti sani, hanno calcolato che sarebbero stati evitati 3,28 milioni di eventi cardiovascolari e 120.000 casi di diabete e sarebbero stati risparmiati 100,2 miliardi di dollari.
«Abbiamo scoperto che una copertura parziale del costo di acquisto di frutta, verdura, cereali integrali, noci, semi e oli vegetali sarebbe altamente conveniente – ha affermato Yujin Lee, prima autrice dello studio – e avrebbe un rapporto costo-efficacia del tutto simile a quello che si ottiene con la prescrizione di farmaci per il colesterolo alto o l’ipertensione».
Lee Y, Mozaffarian D, Sy S, Huang Y, Liu J, Wilde PE, Abrahams-Gessel S, Jardim TSV, Gaziano TA, Micha R. Cost-effectiveness of financial incentives for improving diet and health through Medicare and Medicaid: A microsimulation study. PLoS Med. 2019 Mar 19;16(3):e1002761.
Eccipienti dei farmaci: inattivi, ma non per tutti
Gli eccipienti, vale a dire le sostanze “biologicamente inerti” aggiunte a un farmaco per migliorarne sapore, colore, efficienza di assorbimento, modalità e tempi d’azione nell’organismo, sono generalmente ritenuti sicuri e innocui per chi li assume, a seguito degli esiti favorevoli di innumerevoli test condotti nel corso di decenni e dall’esteso uso in pratica clinica.
Tuttavia, ciò che vale per molte persone non vale per tutti. Una recente ricerca condotta in collaborazione tra due prestigiosi centri di ricerca statunitensi, il Massachusetts Institute of Technology e il Brigham and Women’s Hospital – Harvard Medical School di Boston, indica infatti che molti dei composti teoricamente “inattivi” contenuti in una compressa, in una capsula, in una polvere effervescente o in uno sciroppo possono, in realtà, essere all’origine di intolleranze, reazioni allergiche e da ipersensibilità in pazienti suscettibili.
Nella maggioranza dei casi non si tratta di reazioni gravi, limitandosi spesso a mal di testa, disturbi gastroenterici, prurito o altre manifestazioni dermatologiche. Tuttavia, questi inconvenienti possono indurre a interrompere o ad assumere in modo discontinuo un trattamento necessario (riducendone l’efficacia) oppure possono peggiorare la malattia di base che dovrebbero curare, soprattutto nelle persone più fragili e debilitate o che devono assumere molti farmaci diversi contemporaneamente, come gli anziani.
Per esempio, un eccipiente che causa disturbi gastroenterici come nausea o diarrea può impedire di alimentarsi in modo adeguato o di assorbire i nutrienti necessari a livello intestinale, mentre un composto “inattivo” che induce prurito notturno può ostacolare il riposo e promuovere stanchezza e senso di malessere durante il giorno.
Purtroppo, benché tutte le sostanze contenute in un farmaco siano elencate per legge nel foglietto illustrativo, non è così semplice né per chi lo assume né per il medico che lo prescrive avere una piena consapevolezza dei rischi associati, dal momento che i dosaggi dei singoli eccipienti non sono segnalati e che molti composti diventano potenzialmente dannosi soltanto in seguito ad accumulo in caso di uso continuativo e non dopo una o poche assunzioni.
Inoltre, per gran parte dei farmaci contenenti gli stessi principi attivi (ossia i composti realmente dotati di attività terapeutica) esistono innumerevoli formulazioni differenti, contenenti mix di eccipienti diversi, che si sono ulteriormente moltiplicate dopo l’introduzione dei farmaci equivalenti. Come risolvere la situazione?
Secondo i ricercatori, bisogna agire soprattutto su due fronti: a livello di aziende farmaceutiche, si dovrebbe cercare di sviluppare nuove formulazioni dei medicinali in uso, ponendo la massima attenzione a evitare gli eccipienti non necessari potenzialmente allergizzanti/sensibilizzanti (coloranti, aromi, lattosio, glutine, lecitine, zuccheri FODMAP ecc.); a livello legislativo, obbligando a indicare con maggiore precisione tutti gli eccipienti usati nei foglietti illustrativi.
Un terzo aspetto non meno importante riguarda l’impiego razionale e consapevole dei farmaci da parte dei pazienti, che dovrebbero ricorrere a medicinali di qualunque tipo (da banco o da prescrizione) soltanto nei casi di effettiva necessità, rispettando le indicazioni fornite dal medico o presenti sul foglietto illustrativo in merito a tempi e dosaggi e riportando al medico o al farmacista ogni reazione avversa non prevista, per permettere una farmacovigilanza più puntuale.
Fonte
Reker D et al. “Inactive” ingredients in oral medications. Science Translational Medicine 2019;11(483):eaau6753. doi10.1126/scitranslmed.aau6753 (http://stm.sciencemag.org/content/11/483/eaau6753.abstract)
Miglioramenti alla placca coronarica con la terapia biologica per la psoriasi
La terapia biologica in pazienti con psoriasi grave si associa a miglioramenti significativi delle caratteristiche della placca coronarica, secondo una nuova ricerca coordinata da Nehal N. Mehta, del National Heart, Lung, and Blood Institute di Bethesda, negli Stati Uniti, e a pubblicata su Cardiovascular Research, una rivista della European Society of Cardiology.
La psoriasi grave si caratterizza per un rischio elevato di infarto miocardico precoce e tassi di malattia coronarica simili a quelli del diabete di tipo 2 e, nei pazienti che ne sono colpiti, l’entità della placca non calcificata è correlata in modo significativo sia con i tradizionali fattori di rischio cardiovascolare che con la gravità della psoriasi.
Mehta e colleghi hanno caratterizzato la placca coronarica prima e dopo la terapia in 121 individui con psoriasi da moderata a grave. Di questi, 32 hanno ricevuto un trattamento topico e 89 una terapia biologica, di tre tipologie differenti: anti-TNF, anti-IL12/23 o anti-IL17.
Dopo un anno di follow-up, nei pazienti trattati con farmaci biologici i ricercatori americani hanno è riscontrato una riduzione del 5% della placca coronarica totale e anche della placca non calcificata, mentre in quelli che erano stati sottoposti a terapia topica non si sono avuti miglioramenti significativi. Anzi, in questi ultimi soggetti la coronaropatia ha fatto segnare una progressione, e una parte della componente fibrosa della placca si è convertita in grasso-fibrosa, segnalando un’infiltrazione lipidica le cui conseguenze sono ben note: la parete fibrosa si assottiglia e può arrivare a rompersi, aumentando i rischi della formazione di trombi.
I pazienti trattati con terapia biologica sono migliorati anche dal punto di vista dell’infiammazione sistemica, nonostante gli stessi autori raccomandino cautela e sollecitino studi più ampi e randomizzati.
Tuttavia l’ottimismo è giustificato anche perché il risultato si aggiunge a quello di una precedente ricerca, in cui si era visto che la terapia biologica aveva ridotto il rischio di un nuovo evento cardiovascolare nei soggetti che avevano già avuto un infarto miocardico.
Alcuni farmaci impiegati nella malattia di Parkinson stimolano la creatività
Nei soggetti con malattia di Parkinson, l’uso di farmaci dopaminergici in grado di stimolare i recettori per la dopamina, neurotrasmettitore carente in questa patologia, può determinare degli effetti collaterali caratterizzati da un cattivo controllo degli impulsi: tra questi il gioco d’azzardo patologico, l’ipersessualità e lo shopping compulsivo. Tuttavia lo stesso trattamento farmacologico ha stimolato in alcuni soggetti con malattia di Parkinson un aumento della creatività e l’acquisizione di nuove capacità artistiche.
Mentre il cattivo controllo degli impulsi, quale soprattutto il gioco d’azzardo patologico, è ben riconosciuto in letteratura, la creatività rimane sottostimata, probabilmente perché è un evento spesso apprezzato e come tale non in grado di creare disagio, né nei pazienti né nei loro familiari. In un recente studio, alcuni ricercatori hanno valutato una ventina di soggetti affetti da malattia di Parkinson che presentavano, dopo il trattamento dopaminergico, una maggiore creatività artistica rispetto al passato. Tra le attività artistiche riscontrate al primo posto la pittura, ma anche lo sviluppo di abilità poetiche (Schrag e Trimble 2001; Walker et al, 2006).
Non c’è dubbio che un ambiente familiare stimolante potrebbe far emergere più frequentemente aspetti creativi in corso di malattia di Parkinson trattata con farmaci dopaminergici. Ma un aspetto non secondario è che gli stessi pazienti in cui vi è la comparsa di attività artistiche riferiscono anche una condizione di benessere e la perdita della consapevolezza della malattia e persino dei limiti fisici legati alla malattia (Chatterjee et al, 2006).
Fonte: Garcia-Ruiz PJ, Martinez Castrillo JC, Desojo LV. Creativity related to dopaminergic treatment: A multicenter study. Parkinsonism Relat Disord. 2019 Feb 22. pii: S1353-8020(19)30056-2.
Bibliografia
Chatterjee A, Hamilton RH, Amorapanth PX: Art produced by a patient with Parkinson’s disease. Behav Neurol 2006;17:105–108
Schrag A, Trimble M: Poetic talent unmasked by treatment of Parkinson’s disease. Mov Disord 2001;16:1175–1176
Walker RH, Warwick R, Cercy SP: Augmentation of artistic productivity in Parkinson’s disease. Mov Disord 2006;21:285–286.
Flourochinoloni: quando è meglio evitarli
Tutti gli antibiotici vanno usati con cautela, soltanto se prescritti dal medico per trattare un’infezione batterica di una certa importanza, che non potrebbe guarire da sola, e vanno assunti seguendo con attenzione le indicazioni relative a dosaggio, tempi e modalità di somministrazione. L’uso di alcuni antibiotici, tuttavia, richiede più cautela di altri perché gli effetti collaterali che potrebbero derivare dalla loro azione nell’organismo sono particolarmente severi.
Tra questi ci sono i fluorochinoloni: una classe di antibiotici ad ampio spettro (ossia efficaci contro un esteso numero di batteri Gram+ e Gram-), utilizzati da oltre 30 anni per la cura di infezioni batteriche gravi e pericolose per la vita, soprattutto a carico delle vie respiratorie e urinarie, dell’apparato gastrointestinale e delle ossa.
Oltre agli eventi avversi già noti di questi farmaci, due revisioni effettuate dall’agenzia europea dei medicinali (EMA, European Medicine Agency) e dall’analogo ente statunitense (FDA, Food and Drug Administration) nel corso del 2018 hanno evidenziato criticità rilevanti aggiuntive che impongono di limitare l’uso dei fluorochinoloni somministrati per via sistemica (ossia per bocca, attraverso iniezioni o per via inalatoria) esclusivamente alle situazioni in cui non siano disponibili alternative terapeutiche efficaci per eliminare dall’organismo infezioni così gravi da mettere il paziente in pericolo di vita.
Già nel mese di novembre, l’EMA aveva segnalato che l’assunzione di fluorochinoloni per via sistemica può associarsi a eventi avversi severi e invalidanti, di lunga durata e potenzialmente permanenti, a livello dei muscoli, delle ossa, delle articolazioni e del sistema nervoso, in aggiunta a quelli già noti a carico dell’apparato gastrointestinale (rischio diarrea grave, soprattutto da Clostridium difficile) e cardiaco (con controindicazione all’uso in persone affette da sindrome del QT lungo e/o bradicardia, ossia battito cardiaco lento).
Questi gravi effetti indesiderati degli antibiotici fluorochinolonici in commercio (ciprofloxacina, levofloxacina, lomefloxacina, moxifloxacina, norfloxacina, ofloxacina, pefloxacina, prulifloxacina e rufloxacina) includono infiammazione e rottura dei tendini (in particolare, il tendine d’Achille della caviglia), dolore o debolezza muscolare e dolore o gonfiore alle articolazioni, difficoltà a camminare, neuropatia e parestesie (sensazione di spilli e aghi, bruciore ecc.), stanchezza, depressione, problemi di memoria, disturbi del sonno, della vista e dell’udito, alterazione del gusto e dell’olfatto.
La comparsa di gonfiore e lesioni a livello dei tendini possono manifestarsi entro due giorni dall’inizio del trattamento con un antibiotico fluorochinolonico oppure dopo diversi mesi dalla sua interruzione, ed è proprio questo lungo intervallo tra assunzione della terapia e comparsa dell’effetto collaterale che per molti anni ha impedito ai medici di comprendere l’effettiva correlazione tra i due eventi e, quindi, la rilevanza del rischio associato all’impiego di questi farmaci.
La probabilità che si verifichino gli eventi avversi citati è maggiore nelle persone con più di 60 anni, in chi ha già problemi a livello muscoloscheletrico o renale o ha ricevuto un trapianto d’organo e in chi sta assumendo o ha assunto da poco anche un farmaco a base di corticosteroidi per via sistemica (per bocca, iniezioni, inalazione) o a livello articolare (infiltrazioni) per il trattamento di altre patologie.
Ma non è finita. Poco prima di Natale, la FDA ha aggiunto un’ulteriore e più allarmante motivazione per limitare il più possibile l’uso dei fluorochinoloni. Secondo le verifiche effettuate dall’agenzia statunitense, infatti, il trattamento con questi antibiotici è associato anche a un aumento del rischio di disseccazione e rottura dell’aorta: la principale arteria del corpo che raccoglie il sangue ossigenato in uscita dal cuore e lo distribuisce a tutto l’organismo.
A rischiare maggiormente eventi di questo tipo (che pongono la persona interessata in immediato pericolo di vita e che rappresentano pertanto un’emergenza medica assoluta) sono soprattutto gli anziani e chi presenta o è a rischio di sviluppare aneurismi dell’aorta, come le persone che soffrono di aterosclerosi, ipertensione arteriosa e/o di alcune condizioni genetiche predisponenti come la sindrome di Mafran e la sindrome di Ehlers-Danlos.
In tutti i casi citati, i fluorochinoloni non devono essere usati, a meno che non rappresentino l’unica classe di farmaci disponibile per trattare un’infezione potenzialmente letale, e il loro eventuale impiego va comunque sempre strettamente monitorato dal medico.
Tutte le persone in terapia con antibiotici fluorochinolonici per via sistemica devono seguire le indicazioni del medico, senza interrompere spontaneamente il trattamento, e segnalare subito l’eventuale insorgenza di sintomi quali:
- dolore o infiammazione al tendine d’Achille (o altri tendini);
- dolore, bruciore, formicolio, intorpidimento o debolezza a braccia e gambe o altre parti del corpo;
- forte dolore dietro lo sterno o nella parte alta della schiena (simile a quello dell’infarto), che si irradia al collo, alle spalle e alla mandibola;
- forte dolore addominale o nella parte bassa della schiena, che si irradia alle gambe.
Fonte
- Fluoroquinolone Antibiotics: Safety Communication – Increased Risk of Ruptures or Tears in the Aorta Blood Vessel in Certain Patients (https://www.fda.gov/Safety/MedWatch/SafetyInformation/SafetyAlertsforHumanMedicalProducts/ucm628960.htm)
- Nota Informativa Importante su medicinali contenenti fluorochinoloni (http://www.aifa.gov.it/content/nota-informativa-importante-su-medicinali-contenenti-fluorochinoloni-23102018)
- Effetti indesiderati invalidanti e potenzialmente permanenti hanno comportato la sospensione o restrizioni nell’uso di antibiotici chinolonici e fluorochinolonici. EMA/795349/2018 (https://www.ema.europa.eu/en/news/disabling-potentially-permanent-side-effects-lead-suspension-restrictions-quinolone-fluoroquinolone)
Medicine troppo costose, gli italiani rinunciano alle cure mediche
Nel 2018 circa 539mila italiani non si sono potuti permettere delle cure mediche e dei farmaci adeguati perché non avevano un reddito sufficiente. Il numero sale incredibilmente a 13 milioni se parliamo di persone che hanno diminuito le loro visite, e tutto questo è documentato sul Rapporto 2018 promosso dalla Fondazione Banco Farmaceutico onlus e BFResearch, “Donare per curare: Povertà Sanitaria e Donazione Farmaci”.
I numeri nel rapporto mostrano una inquietante verità: la povertà e le diseguaglianze in Italia aumentano sempre più, ed hanno un impatto anche sulla salute. L’esempio è che le famiglie povere usano il 2,5% della propria spesa totale per ricevere cure mediche, contro il 4,5% (quasi il doppio) di una famiglia normale.
Un altro dato preoccupante è che, dovendo tagliare le spese per le proprie cure mediche, sempre più famiglie utilizzano la propria spesa sanitaria quasi esclusivamente per l’uso di medicinali, perché le spese per le prevenzioni vengono ridotte drasticamente. Il caso dei servizi odontoiatrici è dimostrativo: le famiglie povere spendono circa 30€ l’anno contro gli oltre 300€ del resto degli italiani.
L’insistenza di voler risparmiare a tutti costi, perfino sulla salute, è un’usanza che sta prendendo piede nel nostro Paese ed è confermato dai dati provenienti dal triennio 2014-16: le famiglie benestanti hanno potuto aumentare la loro prevenzione con accertamenti e visite, mentre le famiglie povere sono sempre andate sul risparmio, riputando “non urgenti” o “non necessarie” varie cure.
Sono stati registrate anche varie anomalie per quanto riguarda il numero di decessi, come afferma Gian Carlo Blangiardo, demografo dell’Università di Milano Bicocca e prossimo presidente in pectore dell’Istat: “Dal più recente bilancio demografico diffuso dall’Istat, nel 2017 i morti, in Italia, sono stati 649mila, 34mila in più rispetto al 2016. Nel 2015, i morti sono stati 50mila in più rispetto al 2014. Nell’ultimo secolo, solo nel corso della seconda guerra mondiale (1941-44) e nel 1929 si registrano picchi analoghi”. Infine è intervenuto Sergio Daniotti, il presidente della Fondazione Banco Farmaceutico onlus, che ha detto la sua sulla spesa degli italiani per le cure mediche: “Sono davvero troppe le persone che non hanno un reddito sufficiente a permettersi il minimo indispensabile per sopravvivere. I dati pubblicati quest’anno nel rapporto sulla Povertà Sanitaria dimostrano che il fenomeno si è sostanzialmente consolidato nel tempo e che, prevedibilmente, non è destinato a diminuire sensibilmente nei prossimi anni”.
Medici di famiglia e malattie croniche: non tutti i farmaci sono prescrivibili
Medico di famiglia, medico di base, medico curante, medico di fiducia, medico generalista, medico generico o anche, in ambito istituzionale, medico di medicina generale. Qualunque sia il modo in cui lo si voglia chiamare, questo dottore è conosciuto da tutti gli italiani perché è il medico a cui ogni cittadino si rivolge al primo sintomo di malessere. Ma forse non tutti sanno che il medico di famiglia non può prescrivere una serie di farmaci, tra cui quelli per il diabete. Una limitazione che gli stessi medici e specialisti, nonché le associazioni di pazienti, non trovano giustificata e che chiedono, pertanto, di abolire.
All’interno del nostro servizio sanitario nazionale, il medico di base è l’ufficiale sanitario di primo livello, ovvero colui che presta il primo livello di assistenza sul territorio. Emessa la diagnosi, il medico di base può prescrivere farmaci con apposita ricetta medica o indicare visite mediche specialistiche tramite la cosiddetta impegnativa. Tuttavia, non può prescrivere farmaci innovativi, ovvero gli antidiabetici di nuova generazione, gli anticoagulanti e i farmaci contro la broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO). In base alla normativa vigente in Italia, infatti, la prescrizione di intere classi di farmaci è affidata esclusivamente ai medici specialisti nell’ambito della compilazione del “piano terapeutico”.
La logica alla base di queste limitazioni prescrittive è puramente economica: si tratta di farmaci con costi mediamente superiori a quelli di altri disponibili per le stesse patologie. Una differenza che i medici di base contestano perché, secondo loro, la scelta dei farmaci dovrebbe essere fondata su criteri condivisi di appropriatezza prescrittiva, e non invece riservata solamente ad alcune categorie di professionisti.
Quanto agli effetti sui cittadini, secondo i medici di base limitare le prescrizioni ostacola il diritto del paziente all’accesso al farmaco, rischiando di compromettere l’efficacia delle cure. I medici, pertanto, reclamano a gran voce di poter prescrivere i farmaci che ritengono più appropriati, in particolare i farmaci antidiabetici, alcuni dei quali costituiscono un reale avanzamento terapeutico per il controllo della glicemia, o i nuovi anticoagulanti che migliorano l’aderenza terapeutica, o le associazioni di farmaci per la BPCO.
La prescrizione immediata, quindi, assicura vantaggi diretti ai pazienti, che non andrebbero ad affollare le strutture specialistiche. L’ampliamento delle competenze, inoltre, consentirebbe ai medici di famiglia di acquisire nuove professionalità e nuove conoscenze scientifiche nei confronti dei farmaci innovativi.
di Paola Mantovano
Nasce Antarctica: l’accordo UE contro l’abuso di antibiotici
E’ successo tutto durante la “Giornata Europea degli Antibiotici“, organizzata dallo European Centre for Disease Prevention and Control. Le due più impotanti società scientifich europee Escmid ed Esicm hanno deciso di stipulare un accordo denominato Antarctica (Antimicrobial resistance critical care), ideato per combattere la resistenza antimicrobica nelle unità di terapia intensiva. In poche parole si tratta di una stipula che ha l’obiettivo di ridurre sensibilmente l’abuso di antibiotici e promuoverne un uso molto più razionale e controllato.
Dati alla mano
Secondo le ultime stime infatti, negli ospedali dell’Unione Europea, fino al 50% degli antibiotici viene somministrato con troppa facilità ed in modo eccessivo o inappropriato. Infatti, stando alle rilevazioni effettuate, in Europa l’uso degli antibiotici per la cura delle infezioni multiresistenti è addirittura raddoppiato tra il 2010 ed il 2014. L’Italia nello specifico, è uno degli stati dove si registra un consumo molto elevato (27,8 dosi ogni mille abitanti al giorno).
Un simile abuso porterà a conseguenze molto gravi, se non arrestato in tempo. Proseguendo di questo passo infatti, si stima che entro il 2050 i “superbug” (ovvero quei virus che hanno sviluppato una forte resistenza anche agli antibiotici più forti) diventeranno la causa di morte più diffusa al mondo, anche in misura maggiore rispetto al cancro. Basti penare che allo stato attuale, in Europa, ci sono ogni anno quattro milioni di infezioni da germi antibiotico-resistenti con 25mila morti (le stime mondiali invece registrano un tasso di 700mila decessi per questa causa).
La povertà sanitaria italiana
Come se non bastasse, in Italia si registra un ulteriore aumento della povertà sanitaria. Sempre più persone infatti, a causa della crescente crisi economica e dell’aumentare della disoccupazione (soprattutto quella giovanile), non hanno più la possibilità di acquistare i farmaci per la propria salute e si rivolgono sempre più spesso a centri di assistenza sanitaria. A dirlo è il rapporto “Donare per Curare“, redatto dalla Fondazione Banco Farmaceutico e da Bfr Research, secondo cui nel 2017 la richiesta di medicinali da parte dei suddetti enti (circa 1722) è cresciuta del 9,7%, con un numero di assistiti che ha superato i 580mila (con un tasso di crescita del 4%), registrando numeri più elevati soprattutto tra i giovani sotto i 18 anni di età.
Secondo le parole di Mario Melazzini, direttore generale AIFA: “A preoccupare ancora di più è il divario che si è creato tra il livello di spesa media, che si attesta a circa 695 euro all’anno, e quello delle persone indigenti, che dispongono di circa 106 euro, 17 in meno rispetto a quanto accadeva nel 2016”. E ancora: “Non dobbiamo mai dimenticare che dietro ai numeri e alle statistiche ci sono persone e si nascondono disuguaglianze nell’accesso ai farmaci, problemi di aderenza ai trattamenti, scarse informazioni e un generale peggioramento delle condizioni di salute”.
NUOVA CURA SMA: approvato in Italia il primo farmaco per il trattamento dell’atrofia muscolare spinale
Approvato in Italia Nusinersen per il trattamento dei pazienti affetti da SMA, una malattia neuromuscolare genetica rara che colpisce prevalentemente i bambini ed è la principale causa genetica di mortalità infantile. I dati degli studi clinici hanno evidenziato risultati significativi in termini di aumento della sopravvivenza nei bambini affetti dalla malattia e di raggiungimento di importanti tappe motorie dello sviluppo, come il controllo della testa, la posizione seduta, il gattonamento e il cammino. L’Italia esempio di eccellenza nel mondo per i tempi accelerati di approvazione e di accesso alla nuova terapia.
Cos’è la la SMA
L’atrofia muscolare spinale (SMA) è caratterizzata dalla perdita dei motoneuroni del midollo spinale e del tronco encefalico, comportando debolezza e atrofia muscolare severa e progressiva. I soggetti con il Tipo di SMA più severa possono alla fine andare incontro a paralisi e avere difficoltà nel mantenimento di funzioni vitali, come respirare e deglutire.
A causa della perdita o del difetto del gene SMN1, le persone affette da SMA non producono sufficienti quantità di proteina SMN, fondamentale per la sopravvivenza dei motoneuroni. La gravità della SMA è correlata con la quantità della proteina SMN. I soggetti affetti dalla SMA di Tipo 1, la forma più grave, producono una quantità molto bassa di proteina SMN e non raggiungono la capacità di stare seduti senza ausili o di vivere oltre i due anni senza supporto respiratorio. I soggetti affetti dalla SMA di Tipo 2 e di Tipo 3 producono una quantità maggiore di proteina SMN e hanno forme di SMA meno severe, ma sempre in grado di modificare aspettativa e qualità di vita.
L’approvazione
Nusinersen costituisce il primo trattamento per questa malattia approvato in Italia; il farmaco è stato esaminato nell’ambito del percorso di approvazione accelerata dell’Agenzia Italiana del Farmaco, volto ad accelerare l’accesso ai farmaci che curano le malattie gravi o pericolose per la vita e, in generale, rispondono a bisogni clinici non soddisfatti.
L’approvazione di nusinersen si basa in gran parte sui risultati di due studi registrativi multicentrici e controllati, tra cui i dati definitivi dello studio ENDEAR (per la SMA a esordio infantile) e i dati ad interim dello studio CHERISH (per la SMA a esordio tardivo), che hanno dimostrato un’efficacia clinicamente e statisticamente significativa e un profilo beneficio-rischio favorevole di nusinersen. L’approvazione è stata ulteriormente sostenuta dai dati dello studio in aperto NURTURE, ottenuti negli individui pre-sintomatici con diagnosi genetica di SMA e con possibilità di sviluppare SMA di Tipo 1, 2 o 3.
Nusinersen si somministra per via intratecale, ovvero tramite una puntura lombare direttamente nel liquido cefalorachidiano (CSF) attorno al midollo spinale, sito della degenerazione dei motoneuroni causata da livelli insufficienti della proteina SMN nei pazienti affetti da SMA.