Nonostante intense ricerche, le cause della malattia di Alzheimer continuano a essere sostanzialmente sconosciute. Da tempo, si ritiene che soprattutto due fattori proteici, le placche di ß-amiloide e la proteina Tau, siano coinvolti nella sua insorgenza. Ma non tutti i neurologi ne sono convinti e, comunque, resta da capire che cosa determina la formazione di queste sostanze tossiche per le cellule cerebrali e qual è la loro esatta azione.
Indubbiamente, la predisposizione genetica individuale gioca un ruolo importante nel determinare entità e velocità del declino cognitivo, ma studio dopo studio diventa sempre più evidente il contributo negativo di diversi fattori ambientali che possono interferire con la funzionalità e l’integrità delle cellule cerebrali, in modo diretto o indiretto: dalle sostanze assunte con gli alimenti all’inquinamento, da fonti di stress ossidativo ai farmaci.
Proprio riguardo a questi ultimi, un nuovo invito all’attenzione viene da uno studio condotto da ricercatori dell’Università di Nottingham (Regno Unito) che ha indagato l’impatto sulle prestazioni intellettive e sul loro deterioramento associato all’età dei principi attivi anticolinergici: una classe di medicinali comprendente molecole utilizzate per trattare innumerevoli condizioni cliniche e il cui impiego è molto diffuso tra gli anziani.
Sono anticolinergici, per esempio, l’amitriptilina e la paroxetina (due antidepressivi d’uso comune), alcuni antipsicotici (quetiapina, olanzapina, clorpromazina), antistaminici di prima generazione come prometazina (usati contro allergie e disturbi del sonno), la furosemide (un diuretico indicato in caso di ipertensione, insufficienza cardiaca e altre malattie associate a ritenzione idrica), l’amantadina (per il controllo della malattia di Parkinson), la colchicina (prescritta in caso di attacchi acuti di gotta) e il baclofen (un miorilassante ad azione centrale).
Analizzando le cartelle cliniche di circa 58.800 pazienti con diagnosi di demenza e di 255.600 soggetti senza diagnosi di demenza (tutti di età superiore a 55 anni e inclusi nei registri dei medici di famiglia britannici), i ricercatori hanno evidenziato una correlazione tra assunzione di farmaci anticolinergici come quelli citati e aumento del rischio di sviluppare malattia di Alzheimer.
In particolare, le persone over 55 anni che avevano fatto un uso cronico di questi medicinali per più di tre anni, ai dosaggi maggiori o nelle versioni “più attive”, presentava un rischio di demenza nei 10 anni successivi del 50% superiore a quello di chi non li aveva mai assunti.
Responsabili del più consistente aumento del rischio di malattia di Alzheimer sono risultati essere gli antipsicotici (+70%), gli antimuscarinici usati contro l’incontinenza urinaria (+65%) e gli anti-parkinsoniani (+52%), mentre antidepressivi e antiepilettici sembrano avere un impatto più contenuto, ma comunque non trascurabile (rispettivamente, +30% e +40%), soprattutto alla luce del fatto che, al momento, contro la malattia di Alzheimer non si dispone di terapie efficaci.
Come comportarsi quindi? Naturalmente, se un farmaco anticolinergico è assolutamente necessario per trattare un problema di salute significativo deve essere usato. Ma questa necessità va valutata con cautela, optando per terapie alternative più sicure ogniqualvolta sia possibile e, soprattutto, evitando di somministrare questi medicinali in modo cronico, per diversi anni, se il beneficio che si ottiene è modesto e non tale da giustificare i potenziali rischi per la salute cerebrale.
Fonte
Coupland CAC et al. Anticholinergic Drug Exposure and the Risk of Dementia: A Nested Case-Control Study. JAMA Intern Med 2019; doi:10.1001/jamainternmed.2019.0677 (https://jamanetwork.com/journals/jamainternalmedicine/fullarticle/2736353?widget=personalizedcontent&previousarticle=2736349)