L’influenza è una malattia infettiva, causata da un virus. Si presenta con febbre, dolori muscolari e articolari, congestione nasale, cefalea. L’influenza ha un’alta contagiosità, unita alla capacità del virus di mutare da una stagione all’altra. Nelle categorie più fragili, come anziani e pazienti con patologie croniche, come BPCO, cardiopatie e diabete, l’influenza può avere complicanze gravi.
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Per quanto tempo il virus resta sulle superfici?
Il nuovo coronavirus può vivere ore o giorni sulle superfici di banconi o di maniglie delle porte. Il tempo di sopravvivenza del virus dipende dal tipo di materiale di cui è fatta superficie.
Vediamo i tempi di sopravvivenza sulle diverse superfici con cui veniamo in contatto quotidianamente.
Nuova stagione influenzale al via: le raccomandazioni per prevenirla
Correlazione tra l’herpes labiale e la malattia di Alzheimer
Il virus herpes simplex 1 spesso altera il viso, mettendo in una condizione di disagio chi purtroppo ne viene colpito. Si tende a nascondere la bocca, specialmente se ci si trova in luoghi pubblici. Non esiste una cura definitiva per eradicare il virus dall’organismo, quindi successivamente al contagio si sarà soggetti per tutta la vita a sviluppare l’herpes labiale più o meno frequentemente.
Educare you è stato tra i primissimi in Italia a dare notizia dei risultati di uno studio epidemiologico svolto a Taiwan dalla dott.ssa Ruth Itzhaki su una possibile correlazione tra la malattia di Alzheimer e il virus herpes simplex 1, proprio quello responsabile delle fastidiosissime bollicine sulle labbra.
La conferma viene adesso da uno studio condotto su animali da esperimento da parte di ricercatori italiani, che vede, come primo nome, quello della dr.ssa Giovanna De Chiara del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Roma.
In questo studio è stato utilizzato un modello di infezioni ricorrenti di virus herpes simplex 1 in topi che venivano sottoposti a cicli ripetuti di riattivazione virale. Nel corso dello studio è stata notata una diffusione del virus herpes simplex 1 anche in differenti aree cerebrali che ha determinato la comparsa nel cervello degli animali di alcune caratteristiche tipiche della malattia di Alzheimer, tra cui, soprattutto, la proteina-beta amiloide costantemente presente nel cervello di persone affette da malattia di Alzheimer. A detta degli Autori, nei topi infettati con virus herpes simplex 1 il progressivo accumulo delle tipiche alterazioni molecolari a carico di alcune aree cerebrale, tra cui la corteccia e l’ippocampo, è correlato con la comparsa e l’incremento di deficit cognitivi che divengono irreversibili dopo sette cicli di riattivazione del virus. Gli autori concludono che ripetute infezioni di herpes simplex 1 potrebbero essere considerate come un fattore di rischio per la malattia di Alzheimer.
Fonte
De Chiara G et al. Recurrent herpes simplex virus-1 infection induces hallmarks of neurodegeneration and cognitive deficits in mice. PLoS Pathog. 2019 Mar 14;15(3):e1007617. doi: 10.1371/journal.ppat.1007617. eCollection 2019 Mar.
Ebola, nuovo test rapido potrà aiutare a tenere sotto controllo la diffusione del virus
Nel generale silenzio dei media occidentali, nella Repubblica Democratica del Congo infuria da diverse settimane il secondo più grande focolaio di Ebola della storia, con centinaia di decessi.
Da quando, alla fine dell’estate, i primi pazienti sono stati diagnosticati nella provincia del Nord Kivu, esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e di altri gruppi che si occupano di salute pubblica hanno lavorato per contenere la diffusione del virus e, data l’emergenza, hanno fatto ricorso a diversi vaccini sperimentali, autorizzati per la somministrazione umana ancor prima dell’approvazione delle agenzie regolatorie, secondo un protocollo per uso compassionevole.
Una delle difficoltà nell’impedire la diffusione dei focolai del virus è la mancanza di test diagnostici rapidi e accurati. Attualmente occorre prelevare il sangue dai sospetti contagiati e inviare i campioni a un laboratorio per l’analisi: il processo richiede diversi giorni e durante questo intervallo di tempo le persone infette possono continuare a spostarsi all’interno della comunità anche quando dovrebbero essere messe in quarantena.
Come si può leggere su Science Translational Medicine, una svolta potenzialmente rivoluzionaria giunge da un team di ricerca internazionale che ha sviluppato un dispositivo portatile a batteria, in grado di rilevare la presenza di particelle di virus Ebola in un piccolo campione di sangue in meno di 30 minuti.
Nelle prime valutazioni, condotte sia su modello animale che umano, il dispositivo ha identificato correttamente il 90% dei casi di Ebola e ha fornito solo il 2,1% di falsi positivi.
I ricercatori sono rimasti sorpresi da un fatto imprevisto: anche se sviluppato per la diagnosi dell’Ebola, il test si è dimostrato in grado di indentificare la malaria, con il 100% di sensibilità e il 99,6% di specificità, e la febbre di Lassa.
Il test si avvale della spettroscopia Raman amplificata da superfici, comunemente chiamata Sers, una tecnica che sfrutta l’amplificazione della diffusione Raman da parte di molecole assorbite su una superficie irregolare di metallo: le cellule normali, i virus e il parassita della malaria riflettono la luce in modi diversi e riconoscibili, che il dispositivo è in grado di intercettare. «Se i risultati saranno confermati – hanno scritto gli autori – la tecnica potrà essere utile in caso di focolai di malattie infettive di tipo febbrile».
Zika, un test sanguigno prenatale potrà intercettare i difetti del nascituro
Due anni fa, l’epidemia di Zika aveva terrorizzato le donne incinte residenti nelle regioni endemiche del virus, come il Brasile e anche alcune aree degli Stati Uniti. Il loro timore era giustificato dal legame tra l’infezione da virus Zika durante la gravidanza e il rischio di alcuni gravi difetti congeniti nel nascituro, in particolare di quella condizione nota come microcefalia, in cui si ha un incompleto sviluppo del cranio, per lo più accompagnato da insufficienza mentale.
L’assenza di diagnosi precoci prenatali o di trattamenti ha comportato enormi preoccupazioni e numerose interruzioni di gravidanza. La risonanza magnetica fetale cattura istantanee ad alta risoluzione del feto, ma questa tecnica di imaging può essere utilizzata solo nel secondo o terzo trimestre, quando terminare una gravidanza è più complesso.
Alla University of Southern California, un team di ricercatori sta studiando i meccanismi che stanno alla base delle conseguenze devastanti di Zika con l’obiettivo di sviluppare nuovi test diagnostici prenatali in grado di determinare se i bambini nasceranno in buona salute e ora, come si può leggere nel loro studio pubblicato su JCI INsight, hanno compiuto un significativo passo avanti.
«I nostri risultati – scrivono gli autori su The Conversation – hanno rivelato un’elevata produzione di 16 specifici biomarcatori proteici, presenti nel sangue delle donne incinte che hanno dato alla luce bambini con ritardi dello sviluppo e anomalie oculari. Questi biomarcatori sono potenzialmente utili per predire i risultati delle gravidanze di Zika semplicemente utilizzando campioni di sangue dalla futura madre in qualsiasi stadio della gravidanza».
Il numero di casi di Zika è diminuito drasticamente in seguito al declino dei principali focolai del 2016, eppure molti bambini stanno ancora soffrendo delle terribili conseguenze dell’infezione prenatale. E il rischio di nuove epidemie non è affatto scongiurato, dato che il virus Zika non è stato eradicato e le zanzare Aedes – che ne costituiscono il vettore di trasmissione – sono tuttora ampiamente diffuse.
Fonte: Foo SS et al. Biomarkers and immunoprofiles associated with fetal abnormalities of ZIKV-positive pregnancies. JCI Insight. 2018 Nov 2;3(21).
https://www.flickr.com/photos/dcmot/24977548510
I virus? Non sempre sono nocivi
Virus non è sempre sinonimo di “causa dannosa”, portatrice di effetti negativi. Almeno negli abissi marini, dove le infezioni virali del plancton costituiscono il motore della catena alimentare. La notizia è più che attendibile, provenendo da una ricerca italo-spagnola che coinvolge l’Ismar-Cnr, e pubblicata su “Science Advances”, che dimostra come negli oceani profondi le infezioni virali del plancton rilasciano ogni anno 140 gigatonnellate di carbonio organico fresco per la catena alimentare dell’ecosistema. I risultati? Aiuteranno a migliorare le stime del ciclo globale del carbonio sulla terra, utili per la comprensione dei cambiamenti climatici.
Lo studio
Se le profondità degli oceani continuano ad essere popolate da pesci e altre creature marine, si legge nello studio, il merito è anche dei virus che, infettando il plancton, rimettono in circolo nutrienti essenziali per la catena alimentare dell’ecosistema. “La ricerca è basata sull’analisi di oltre mille campioni di acqua raccolti, dalla superficie fino alla profondità di 4.000 metri, lungo gli oceani Atlantico, Pacifico e Indiano nel corso di una spedizione scientifica condotta nel 2010 e finanziata dal Csic chiamata Malaspina Expedition e che ricalca l’omonima spedizione di circumnavigazione del globo condotta da Alessandro Malaspina alla fine del 1700”, spiega Gian Marco Luna, ricercatore Ismar-Cnr di Ancona e coautore dello studio. “Abbiamo dimostrato che i virus degli ambienti profondi, di cui finora si conosceva poco, sono in grado di predare il plancton microbico molto più attivamente di quanto ritenuto”.
In particolare, si stima che nell’oceano globale questi virus infettino ogni secondo centinaia di triliardi di microrganismi del plancton (un triliardo corrisponde a mille miliardi di miliardi). I virus distruggono le cellule infettate, che così rimettono in circolo nell’acqua circostante il loro prezioso contenuto, composto di biomolecole di elevata qualità nutrizionale. Così, un’importante frazione di tale materia organica diventa nutrimento per altri microrganismi, secondo l’effetto conosciuto come “viral priming“, nutrendo l’intera rete alimentare fino ai pesci.
Effetti
I ricercatori hanno inoltre dimostrato che l’infezione virale, in particolare nell’oceano profondo, è responsabile della rigenerazione di una enorme quantità di carbonio organico disciolto. “Utilizzando la citometria a flusso, una tecnica laser impiegata in biologia che permette il rilevamento e il conteggio delle cellule e dei virus in campioni d’acqua oceanica, abbiamo mostrato che l’infezione virale è responsabile del rilascio annuo di 140 gigatonnellate di carbonio (una gigatonnellata corrisponde a un miliardo di tonnellate), contribuendo così al ciclo globale del carbonio oceanico”, prosegue il primo autore del lavoro Elena Lara, ricercatrice spagnola attualmente in forza all’Ismar-Cnr di Venezia ed associata al Icm-Csic di Barcellona. I virus, rompendo le cellule dei microbi vivi, producono quindi carbonio organico fresco, fatto di biomolecole più digeribili e potenzialmente più utilizzabili lungo la rete trofica rispetto all’ampia fetta di carbonio organico disciolto.