Mari e oceani invasi da bottiglie, piattini, bicchieri, cannucce e buste della spesa. Pesci e uccelli uccisi dall’eccesso di plastica ingerita o filtrata attraverso le branchie. Spiagge idilliache sommerse da rifiuti che impiegheranno secoli per essere smaltiti. Sono scene a dir poco inquietanti, che i media stanno proponendo da diversi mesi nell’intento di far prendere coscienza del disastro ambientale di cui ci siamo resi “inconsapevolmente” responsabili e dell’impellente necessità di porre rimedio. Prima che a rimetterci sia anche la nostra salute. Ma non è soltanto delle plastiche macroscopiche abbandonate in natura che dobbiamo preoccuparci. Anche le microparticelle rilasciate da bottiglie e contenitori di bevande e alimenti e i frammenti di plastica che possono essere presenti, ancorché invisibili, nell’acqua potabile che sgorga dai rubinetti e che assumiamo senza rendercene conto meritano molta più attenzione e più ricerche di quanto fatto finora. A sottolinearlo è l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel recente Report “Microplastics in drinking-water”, che fa il punto sullo stato delle evidenze scientifiche sull’argomento. In sintesi, benché i dati attualmente disponibili non indichino rischi significativi per la salute umana derivanti dalle microplastiche presenti a bassi livelli nelle acque potabili, l’OMS ritiene urgente intraprendere nuovi studi in merito e attivare da subito politiche finalizzate al contenimento della produzione e dell’uso di oggetti in plastica per evitare di aggravare il già critico danno ambientale. Il Report rassicura sul fatto che i frammenti plastici di dimensioni superiori a 150 µm (invisibili all’occhio umano) che possono essere presenti nell’acqua potabile e nei cibi a cui viene aggiunta durante la preparazione non vengono assorbiti dall’intestino e non dovrebbero, quindi, avere un impatto metabolico. Particelle di dimensioni inferiori possono, invece, entrare nell’organismo, ma la quantità mediamente assorbita non dovrebbe comunque costituire un danno per la salute. D’altro canto, i condizionali sono molti e le certezze poche, anche perché il problema è relativamente “nuovo”, perché non sono ancora stati sviluppati metodi standardizzati per misurare i livelli di esposizione umana alle microplastiche e perché eventuali effetti negativi potrebbero manifestarsi soltanto a lungo termine o in modo non chiaramente riferibile a un singolo materiale o a composti da esso derivati una volta assorbito dall’organismo (cataboliti). In attesa di nuovi dati utili, l’OMS suggerisce di trattare l’acqua potabile e i reflui con i sistemi di depurazione già in uso per rimuovere agenti chimici di vario tipo e i patogeni responsabili di malattie gastroenteriche, in grado di eliminare anche le microplastiche, proteggendo sia l’uomo sia l’ambiente. Una corretta filtrazione delle acque reflue, per esempio, può rimuovere fino al 90% delle microplastiche presenti. Purtroppo, non tutte le aree del mondo dispongono di questi sistemi di depurazione né hanno la possibilità o la sensibilità per investire in azioni che tutelino l’ambiente. Per quanto si tratti di un problema globale, che deve essere affrontato a livello politico oltre che scientifico, ciascuno può contribuire a ridurre l’impatto di plastiche grandi e piccole sull’ambiente e sulla salute umana: scegliendo il più possibile materiali alternativi, facilmente biodegradabili/riciclabili e innocui per la salute; preferendo oggetti riutilizzabili a lungo anziché monouso; effettuando una corretta raccolta differenziata e non abbandonando mai rifiuti nell’ambiente.
Fonte: Microplastics in drinking-water. Geneva: World Health Organization 2019. Licence: CC BY-NC-SA 3.0 IGO.
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