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Sonno e Memoria: La memoria nella profondità del sonno

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Il cervello, anche quando dormiamo, lavora. Diverse ricerche ormai concordano nell’assegnare al cervello che dorme un ruolo centrale nella fissazione dei ricordi e quindi nell’apprendimento. La dimostrazione di questo apparente paradosso viene da ricerche
sulla “pennichella”: volontari sottoposti a prove di recupero mnemonico di una lista di parole apprese, se, tra l’apprendimento
della lista e il recupero, avevano interposto un sonnellino di una novantina di minuti, ricordavano più parole di quelli che non avevano dormito. Questo fenomeno è stato riscontrato addirittura in bambini piccolissimi, come ha dimostrato un gruppo di psicologi della tedesca Università della Ruhr, che recentemente ha pubblicato su PNAS uno studio realizzato su bambini tra i 6 e i 12 mesi di età. Il cervello dei bambini, a questa età, ha già sviluppato una forte capacità imitativa. I ricercatori hanno utilizzato questa competenza per verificare se il sonnellino potesse migliorare la memorizzazione di semplici azioni con oggetti. I bambini che avevano dormito più di mezz’ora, dopo l’ esposizione alla manipolazione di oggetti, erano più capaci, nel riprodurre queste azioni, di chi aveva dormito meno di mezz’ora.
I dati più sorprendenti vengono però dagli studi sugli adulti. Infatti, il paradosso è che il consolidamento della memoria, attività prettamente cognitiva e quindi impegnativa, avviene quando siamo negli abissi del sonno profondo, quando la macchina cerebrale è al minimo del consumo di ossigeno, il sangue scorre lento e l’elettroencefalogramma mostra onde ampie, lente e lentissime.È noto che durante il sonno l’attività del nostro cervello è molto variabile: si alternano cicli, di circa un’ora e mezzo ciascuno, che contengono fasi dominate da onde elettriche lente e lentissime e invece fasi caratterizzate da onde miste, a predominanza veloce. Quest’ultima è chiamata fase REM (Rapid Eye Movement ) perché le onde veloci si accompagnano a movimenti rapidi degli occhi. In questa fase facciamo sogni molto dettagliati e coerenti , che hanno più facilità di essere ricordati. All’elettroencefalo gramma, il cervello mostra un profilo molto simile a quello della veglia. Per questo, per molto tempo si è pensato che la fase REM fosse quella più legata all’attività cognitiva notturna. Invece, è ormai chiaro che è la fase a onde lente e ultralente, chiamata Sonno a onde lente (Slow Wave Sleep) che fa parte della più ampia fase Non -REM, ad essere implicata nella memorizzazione notturna. Bjorn Rasch e Jan Born, neuroscienziati dell’Università di Zurigo, in un’ampia rassegna su Physiological Review, documentano che l’esposizione a un odore, durante un compito di apprendimento cognitivo, sollecita il consolidamento della memoria solo se le stesse persone vengono riesposte allo stesso odore mentre sono nella fase del sonno profondo e non in quella REM. Ma quali sono i meccanismi cerebrali ipotizzati?
La fissazione di un ricordo è un processo che richiede la collaborazione di due aree cerebrali: la corteccia e l’ippocampo. La prima fissa l’attenzione sull’oggetto da memorizzare, lo inquadra, gli dà un codice e poi trasferisce questa prima codifica all’ippocampo che consoliderà la traccia per poi ritrasferirla alla corteccia, dove potrà essere integrata nei vari cassetti della nostra memoria e rimanere a disposizione per ulteriori richiami. In questo dialogo, le due aree vanno a diverse velocità: la corteccia è caratterizzata da onde veloci e da onde teta, che sono onde relativamente lente, hanno un ritmo (4 -8 Herz) che però è più del doppio di quelle lente, le delta (1-4 Herz) che invece dominano l’ippocampo e la fase profonda del sonno. Durante la veglia quindi, la prima fase della memorizzazione avverrebbe nel segno delle onde teta, mentre durante il sonno profondo, l’ippocampo consoliderebbe il ricordo con una attività lenta e ultralenta (meno di 1 Herz).

Che prove abbiamo di questa spiegazione? L’applicazione di una corrente transcranica (operazione assolutamente indolore) con frequenza delta, sull’area della testa che corrisponde alla corteccia prefrontale durante la prima fase del sonno, incrementa la memoria di un esercizio fatto prima di dormire. Se invece si somministra una frequenza teta la memoria viene soppressa. Ma, al contrario, se si somministra una frequenza teta durante la veglia, quando si è impegnati nell’apprendimento, la memoria viene migliorata. Un’ulteriore prova è venuta il 15 marzo scorso quando un gruppo di neuroscienziati austriaci hadimostrato sul Journal of Cognitive Neuroscience che l’attività teta durante l’apprendimento è direttamente collegata alla capacità di ricordare dopo una notte di sonno. In sostanza, dicono i ricercatori,durante il sonno ad onde lente, l’ippocampo seleziona i ricordi da salvare e quelli da buttare e lo fa seguendo un’etichetta che è stata apposta loro durante la veglia, l’etichetta teta. Infine, c’è un altro tipo di

Sonno e Memoria

e cioè quella immunitaria. Volontari che hanno ricevuto una singola dose di vaccino contro l’epatite A, se la notte successiva al vaccino non hanno dormito, il livello anticorpale (che indica l’efficienza della vaccinazione), controllato dopo quattro settimane, è molto più basso di quello dei colleghi che hanno dormito .

Le braccia e le gambe della memoria

È noto che noi italiani siamo dei buoni comunicatori e che usiamo molto i gesti per sottolineare o completare un messaggio. Questa caratteristica, che potrebbe apparire un semplice tratto del costume latino, più espansivo e fisico di quello del nord del mondo, oggi acquista una nuova dimensione alla luce delle neuroscienze cognitive. La gestualità infatti, oltre a svolgere un ruolo comunicativo, svolge anche un ruolo nell’ elaborazione cognitiva e nella memoria. Abbiamo una serie di evidenze che dimostrano che, quando si richiama un evento, la gesticolazione può favorire il richiamo di dettagli meglio che quando la gesticolazione è interdetta. Inoltre, la gesticolazione, prima del richiamo di parole precedentemente apprese, aiuta la performance del richiamo.  Altri studi hanno documentato un effetto della gesticolazione sulla memoria di lavoro. Questo rinnovato interesse sul rapporto tra corpo, cognizione e memoria, ha importanti basi cliniche. È infatti da tempo noto che disturbi neurologici e psichiatrici spesso s’accompagnano ad alterazioni motorie e, viceversa, che disordini motori s’accompagnano ad alterazioni psichiatriche.
Un tratto tipico della depressione è l’alterazione della memoria e il rallentamento motorio, così come sono frequenti le alterazioni motorie nei disordini psicotici e d’ansia. Viceversa, il Parkinson, che è la malattia tipica del sistema motorio dei gangli della base, presenta frequentemente disturbi depressivi e/o di peggioramento della performance cognitiva e della memoria. Infine, è assodato da numerosi studi clinici controllati che l’esercizio fisico strutturato ha effetti positivi sulla depressione maggiore e sui disturbi d’ansia, sulle demenze e su altri disordini neurodegenerativi. Un recente trial randomizzato controllato, pubblicato su Neurology da un gruppo interdisciplinare della Università dell’ Iowa, ha documentato che l’attività aerobica migliora non solo la fitness, la funzionalità motoria, la fatica, ma anche l’umore, la cognizione e la memoria di persone con Parkinson. Una estesa ricerca sull’animale e sull’uomo ha documentato che l’attività fisica induce il rilascio nel cervello di tre neurotrasmettitori fondamentali per la memoria, come la dopamina, la serot onina e la noradrenalina . Al tempo stesso, giungono al cervello cannabinoidi e fattori di crescita e di plasticità cerebrale (IGF-1) immessi nel torrente circolatorio dalla contrazione muscolare. Un dato accertato dalla ricerca sull’uomo è l’aumento, indotto dall’attività fisica, del Fattore nervoso di derivazione cerebrale (BDNF), aumento che corrisponde ad un miglioramento della capacità di recupero dei ricordi.
di Francesco Bottaccioli

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