Che cosa c’entra il microbiota intestinale con una condizione neurodegenerativa come la malattia di Parkinson? Fino a ieri, niente, si pensava. Oggi, invece, sembra che una relazione ci sia, quanto meno per chi assume farmaci a base di levodopa per tenere sotto controllo tremori e rigidità muscolare. Vale a dire, la stragrande maggioranza dei pazienti.
Il ruolo dei batteri intestinali
Gli intensi studi condotti negli ultimi anni ci stanno insegnando che il microbiota intestinale serve praticamente a tutto, facendo da interfaccia tra noi e il mondo e regolando innumerevoli reazioni enzimatiche e funzioni fisiologiche. Quando è in buona salute, tutto procede per il meglio; quando si destabilizza o si impoverisce, il rischio di veder insorgere o peggiorare disturbi e malattie di vario tipo aumenta sensibilmente.
Nel caso della malattia di Parkinson, la situazione è un po’ diversa. Le caratteristiche e l’attività dei batteri intestinali dei pazienti, infatti, non creano di per sé problemi, ma possono interferire con l’efficacia della terapia con levodopa: composto precursore della dopamina, che deve essere costantemente fornito dall’esterno per rimpiazzare la dopamina non più prodotta dalle cellule cerebrali della substantia nigra, degenerate a causa della malattia.
La levodopa non viene mai somministrata da sola, ma sempre in associazione a una seconda sostanza chiamata “inibitore delle decarbossilasi”, indispensabile per far sì che la levodopa non sia rapidamente trasformata in dopamina dalle decarbossilasi presenti nel sangue, ma che possa raggiungere il cervello, dove deve esplicare la propria azione di modulazione del tono muscolare.
È noto da decenni che, fin dall’esordio della malattia, pazienti diversi necessitano di dosaggi differenti di levodopa/inibitori delle decarbossilasi per tenere sotto controllo i sintomi della malattia di Parkinson e che, in tutti i casi, il dosaggio efficace aumenta progressivamente nel tempo (a causa di una diminuzione di efficacia dei farmaci). Finora, però, nessuno sapeva spiegare le ragioni alla base di questi fenomeni.
I nuovi dati sull’efficacia della terapia
Uno studio recentemente pubblicato su Nature Communication suggerisce perché ciò avvenga. In sostanza, il problema sembra essere legato alla capacità di alcuni batteri intestinali (in particolare, lattobacilli ed enterococchi, di cui è ricco il microbiota intestinale costitutivo) di trasformare la levodopa in dopamina a livello dell’intestino tenue, rendendola così facilmente degradabile subito dopo l’assorbimento e impedendo che ne arrivi una quantità sufficiente al cervello.
A quanto pare, alcuni pazienti affetti da malattia di Parkinson presentano un microbiota particolarmente attivo su questo fronte, a causa di un’attività delle decarbossilasi batteriche molto elevata: ciò renderebbe i pazienti parzialmente “resistenti” alla terapia con levodopa, da cui potrebbero trarre benefici minori della media e via via decrescenti nel tempo.
Benché resti da capire come sfruttare questi nuovi dati a livello clinico-pratico, si tratta di un’informazione importante perché offre la possibilità di migliorare e prolungare l’efficacia della terapia con levodopa con un approccio diverso da quelli usati finora, ossia modulando la composizione del microbiota intestinale e/o l’attività delle decarbossilasi batteriche.
Fonte
Sebastiaan P et al. Gut bacterial tyrosine decarboxylases restrict levels of levodopa in the treatment of Parkinson’s disease. Nature Communications 2019;10:310. doi:10.1038/s41467-019-08294-y