Effetto placebo e del suo contrario nocebo
Il più vecchio e spettacolare episodio di alternanza, nella stessa persona, di un effetto placebo e del suo contrario nocebo, pubblicato nella letteratura scientifica, è quello descritto nel 1957 da Bruno Klopfer, psicologo tedesco. Un signore di nome Wrigth, affetto da un tumore a uno stadio avanzato, chiese al suo medico curante di essere trattato con un farmaco sperimentale. Dopo un’unica iniezione “il tumore si sciolse come una palla di neve su una stufa bollente” scrisse il medico nella cartella clinica. Poco tempo dopo, il signor Wright, ormai ristabilito, lesse casualmente un articolo che parlava dell’inefficacia di quel farmaco nei tumori. Wright peggiorò di lì a pochi giorni. Agli esami presentò metastasi. A quel punto il medico iniettò al paziente dell’acqua raccontandogli di aver ricevuto una nuova versione del farmaco stavolta efficace. Le metastasi scomparvero!
Non sappiamo come andò a finire la storia di Herr Wright, ma sappiamo che negli ultimi cinquant’anni sono stati pubblicati più di cento lavori clinici e sperimentali per cercare di comprendere ciò che è incontrovertibile: il manifestarsi di effetti positivi o negativi nella fisiologia di una persona che ha ricevuto acqua fresca credendo fosse un farmaco, oppure che è stato oggetto di buone o cattive parole. Martina Amanzio, della Facoltà di Psicologia di Torino, e Fabrizio Benedetti, anche lui torinese e autorità internazionale sul placebo, rivedendo gli studi che hanno testato i farmaci anti-emicrania, hanno registrato che nel gruppo placebo la frequenza di effetti avversi è elevata, cosa che non dovrebbe accadere con l’assunzione di pillole inerti; ma la parte più intrigante della storia è che gli effetti avversi sono gli stessi del farmaco testato. E cioè, negli studi che hanno testato i farmaci anticonvulsivi, il gruppo placebo ha mostrato anoressia e disturbi della memoria, i tipici effetti avversi degli anticonvulsivi. Così, negli studi che hanno testato gli antinfiammatori non steroidei (i FANS), gli effetti avversi prevalenti sono stati nausea e disturbi gastrointestinali, tipici di questi farmaci.
La spiegazione di questo fenomeno è da ricercare nelle aspettative delle persone, che sono state (correttamente) informate sui possibili effetti collaterali dei farmaci: l’informazione e l’ aspettativa hanno prodotto la peculiarità dei sintomi. Ma non è solo questione di aspettativa. Il primo studio sugli animali che ha mostrato l’influenza di un placebo sul sistema immunitario è stato quello di Robert Ader, pioniere della Psiconeuroendocrinoimmunologia: nel 1975 egli dimostrò che ratti condizionati dall’assunzione di saccarina combinata con un potente immunosoppressore (ciclofosfamide), anche quando ricevevano solo saccarina manifestavano i segni dell’immunosoppressione. Ci sono quindi forme di condizionamento che non arrivano alla coscienza e che comunque producono effetti. Anche per questo c’è interesse per un possibile uso clinico dell’effetto placebo. Benedetti ha dimostrato che è possibile produrre un effetto placebo positivo in malati di Parkinson, prolungando gli effetti dei farmaci con pillole placebo, oppure in sportivi, prolungando, con gli stessi mezzi, gli effetti di uno stupefacente. Ma che accade nel nostro cervello? L’applicazione delle tecniche di neuroimmagine ha dimostrato l’esistenza di una doppia via: una per il placebo e l’altra per il nocebo. La prima attiva il cosiddetto circuito del premio e del piacere, la seconda quella dell’ansia. La prima si basa sull’attività della dopamina e degli oppioidi, la seconda su quella della colecistochinina.
L’Aspettativa riduce il dolore
È documentato da alcuni anni che l’aspettativa – e quindi il valore che il soggetto attribuisce a un evento doloroso incombente – condiziona il livello di intensità con cui viene percepito.
Ad esempio, se allo stesso soggetto si applica una fonte di calore che viene dichiarata essere di grado inferiore rispetto a quella precedentemente applicata, questa aspettativa riduce l’attivazione delle aree cerebrali coinvolte nella ricezione e decodificazione del dolore e quindi, pur avendo ricevuto uno stimolo doloroso intenso (calore di 50 C° in una mano), il soggetto lo percepisce come meno intenso, o, meglio, intenso, quanto si aspettava che fosse (48 C°).
Di Francesco Bottaccioli