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Tero Kortekangas, ortopedico dell’Ospedale finlandese dell’Università di Oulu è partito dalla considerazione che restare ingessati ha conseguenze sulla salute: più a lungo un arto resta immobilizzato e maggiori sono le probabilità di danni alla pelle, trombosi venosa profonda e rigidità dopo che il gesso viene tolto. Ha così arruolato 247 pazienti, dall’età media di 45 anni, che erano incorsi nel tipo più comune di frattura alla caviglia tra il 2012 e il 2016, ma non erano stati indirizzati alla chirurgia. Suddivisi in tre gruppi, a un terzo di loro è stato fatto indossare un gesso per le tradizionali sei settimane, a un terzo il gesso è stato rimosso dopo tre settimane, mentre agli altri è stata applicata una semplice cavigliera.

Il grado di recupero è stato valutato in tre momenti successivi: dopo sei settimane, tre mesi e un anno, sulla base dell’indice Oma (Olerud-Molander ankle) che è ritenuto il sistema più preciso per misurare lo stato di salute della caviglia e che si basa su una scala da uno a cento, in cui i punteggi più alti corrispondono alle condizioni migliori.

Dopo un anno, come si può leggere sul British Medical Journal, quelli che avevano indossato il gesso per sei settimane hanno ottenuto i risultati meno favorevoli, con un punteggio medio di 87,6 rispetto al 91,7 registrato nel gruppo in cui l’ingessatura è stata mantenuta per sole tre settimane. Sempre all’ultimo controllo, i pazienti di tutti e tre i gruppi hanno evidenziato una situazione simile sia riguardo all’assenza di dolore che alla qualità della vita, ma chi aveva portato una cavigliera è stato in grado di eseguire un movimento della caviglia leggermente più ampio.

È vero che le fratture della caviglia non sono particolarmente comuni, ma le implicazioni potrebbero essere molto più ampie. Infatti, come ha fatto notare Kortekangas, il risultato potrebbe essere valido anche per le fratture che si verificano in altri segmenti ossei e quindi lo studio apre la strada a tutta una serie di nuovi approfondimenti.

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