Tutte le malattie, in particolare quelle severe e/o ad andamento cronico, comportano oltre a disturbi e sintomi fisici più o meno caratteristici anche uno stress psicologico, che generalmente si traduce in una riduzione transitoria o persistente della qualità di vita e, in una quota di pazienti, in veri e propri stati di ansia e depressione. Come hanno evidenziato numerosi studi condotti negli ultimi anni, la fibrillazione atriale non sfugge a questa regola, con l’aggravante che lo stress psicologico conseguente alla malattia cardiaca può peggiorare i sintomi della fibrillazione atriale stessa, rendendola più difficile da gestire.
Nuovi dati a riguardo forniti da uno studio che ha coinvolto 78 pazienti con fibrillazione atriale parossistica o persistente, di età compresa tra 50 e 70 anni e nella metà dei casi in forte sovrappeso/obesi e/o affetti anche da ipertensione, afferenti a centri cardiologici specialistici di Melbourne (Australia), hanno permesso di precisare alcuni aspetti della correlazione tra benessere psicologico e malattia cardiaca.
In particolare, dalla valutazione dei soggetti arruolati nell’arco di 12 mesi è emerso che maggiore è l’entità dei sintomi della fibrillazione atriale e maggiore è lo stress psicologico percepito dai pazienti, con conseguente riduzione della qualità di vita globale. La più giovane età e il peso corporeo più elevato, insieme a un profilo di personalità caratterizzato da vulnerabilità allo stress, negatività e inibizione sociale, rappresentano aggravanti specifiche, in grado di aumentare lo stress psicologico percepito in modo indipendente dalla severità dei sintomi cardiaci. Il malessere psicologico globale che ne deriva è marcato per almeno un paziente su tre (35%) e comporta pensieri suicidari per un paziente su cinque (20%).
A fronte di queste correlazioni negative, lo studio australiano ha evidenziato anche un aspetto favorevole, di cui sarà importante tener conto in pratica clinica. In particolare, è stato rilevato che i pazienti con fibrillazione atriale sottoposti all’intervento di ablazione (oggi eseguito perlopiù transcatetere, in modo minimamente invasivo), oltre a beneficiare di una pressoché totale eliminazione dell’aritmia cardiaca, andavano incontro anche a una sostanziale diminuzione dello stress psicologico e dell’ideazione suicidaria nei 12 mesi post-intervento, nonché a significativo miglioramento della qualità di vita globale. Un vantaggio che non è stato, invece, riscontrato tra i pazienti trattati con farmaci antiaritmici.
Sulla base di questi risultati, si dovrebbe proporre l’ablazione della fibrillazione atriale a tutti quelli che ne soffrono? Evidentemente no, perché l’intervento è comunque associato a un minimo rischio operatorio ed è efficace nel 70-90% dei casi, non in tutti. Per la maggioranza dei pazienti, quindi, il primo approccio, resta di tipo farmacologico.
Ciò che lo studio sottolinea è soprattutto l’importanza di considerare, oltre a quelli clinici, anche gli aspetti psicologici al momento di scegliere il tipo di trattamento della fibrillazione atriale, soprattutto nei pazienti più giovani e/o con profili di personalità più problematici, e l’opportunità di includere il benessere psicologico tra gli obiettivi terapeutici. D’altro canto, per chi non è candidato all’intervento (quanto meno nell’immediato), può essere utile affiancare ai farmaci antiaritmici un intervento di supporto psicologico o di gestione dello stress.
Fonte
- Walters TE et al. Psychological Distress and Suicidal Ideation in Patients With Atrial Fibrillation: Prevalence and Response to Management Strategy. J Am Heart Assoc. 2018;7(18):e005502. doi:10.1161/JAHA.117.005502 (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6222970/)